Aida d’Italia: il flop dell’Arena

VERDI Aida S. Lim, O. Petrova, A. Netrebko, Y. Eyvazov, M. Pertusi, R. Burdenko, R. Rados, F.  Maionchi; Orchestra, Coro, Corpo di ballo dell’Arena di Verona direttore Marco Armiliato maestro del coro Roberto Gabbiani regia, scene, costumi, luci, coreografia Stefano Poda

Verona, Arena, 16 giugno 2023

Serata nel più sfacciato stile sovranista, dove si mescolavano nel kitsch più assoluto amor di patria, orgoglio nazionale, luci della ribalta, vips agghindati nelle più improbabili fogge, politicanti e politicastri del Belpaese, icone dell’Italian Lifestyle — pardon, dicasi stile di vita italiano, obbligatorio rifuggire da ogni esterofilia. Madrina d’eccezione un’affaticatissima Sophia Loren, accolta da una standing ovation (ops, ovazione in piedi) al suo ingresso in platea (giusto 70 anni fa proprio lei aveva vestito i costumi di Aida, nell’adattamento cinematografico dell’opera, prestando la propria immagina alla voce di Renata Tebaldi).

Ti giravi in ogni dove nella cavea areniana e potevi scorgere un po’ tutti i volti che contano: i presidenti di Senato e Camera, La Russa e Fontana, i ministri Urso, Casellati, Ciriani, Calderone e Sangiuliano, con i sottosegretari Mazzi e Sgarbi; l’attore americano Matt Dillon, nomi televisivi come Amadeus, ospiti ‘di casa’ come Jerry Calà e Gigliola Cinquetti; poi Lino Banfi, Iva Zanicchi, Michele Placido, gli scrittori Alessandro Baricco e Marco Malvaldi, Mogol e Morgan. E poi Alberto Angela che propina una pillola di storia sull’anfiteatro romano

Tutti in piedi a cantare l’inno in sincrono con il coro vestito con i colori della bandiera. Frecce tricolori che attraversano il cielo sopra l’Arena, dipingendolo dei colori patri. Tempi, modi e stile dettagliatamente prescritti agli ospiti della serata attraverso un volantino distribuito all’ingresso. Dato che siamo in mondovisione e tutti ci vedono, cerchiamo di fare del nostro meglio: alziamo piano le sedute perché non sbattano, alziamoci tutti quando arriva la Loren, attendiamo il passaggio delle Frecce prima di cantare l’Inno (solo la prima strofa o anche la quarta “I bimbi d’Italia / Si chiaman Balilla”?), sosteniamo lo spettacolo con applausi appropriati fino alla fine e un po’ oltre: “sarete sempre sotto l’occhio di venti telecamere, di cui tre aeree, pensate per enfatizzare la vostra partecipazione. Verona e la mondovisione hanno bisogno del vostro calore, dei vostri applausi, delle vostre standing ovation da mostrare al pubblico internazionale… Insieme, dobbiamo dare il massimo con convinzione”. Un po’ di sano squadrismo che non guasta e ci fa apparire belli agli occhi del mondo. Qualche minuto di pioggia a turbare la serata, poi…tutti a casa. Ah no, scusate, c’è da sentire Aida. E Verdi sia.

Responsabile di tanto can can l’idea balzana del tenore veronese Giovanni Zenatello, che nel 1913, dopo aver lanciato un do di petto durante una visita nell’anfiteatro romano, ebbe l’idea di organizzarvi il primo festival lirico. Erano 100 anni dalla nascita di Verdi, Aida l’opera scelta. Da allora sono passate 100 stagioni (in mezzo due guerre mondiali): il conto tondo merita il festeggiamento. Da fare con uno spettacolo che entri nella storia, almeno secondo le intenzioni della sovrintendente-direttore artistico-factotum Cecilia Gasdia. Peccato la scelta funesta di affidarne la messinscena a Stefano Poda, regista, scenografo, coreografo, costumista, light-designer e chi più ne ha più ne metta. Questa la sua idea registica: «Il pubblico si troverà davanti a una grande installazione: il moderno non è una rincorsa all’attualità, bensì un salto al futuro. Il patrimonio dell’antico Egitto diventa quello del genio di Verdi, che si trasforma in un tesoro tutto italiano rappresentato in una cattedrale laica, un luogo sacro e millenario pronto a raccogliere tutte le migliori energie dell’Italia».

Cosa voglia dire con queste dichiarazioni non è chiaro e lo spettacolo ne è stato lampante (lampeggiante?) conferma. Un po’ Star Wars, un po’ Star Trek, un po’ 2001 Odissea nello spazio, un po’ avanspettacolo televisivo anni ottanta tutto paillettes e glitter. Coreografie che sembravano una replica aggiornata delle mossette di Heather Parisi nelle sue comparsate televisive con quei piegamenti ritmici che ricordavano quelli di Lorella Cuccarini e dei suoi boys. Con tanto di costumi argentati riflettenti la luce in mille bagliori accecanti. Fastidiosi, più di una volta.

Sul palcoscenico un immenso praticabile in plexiglass inclinato montato su una struttura di metallo, dominato da una monumentale mano di metallo semovente: simbolo del potere, secondo l’idea registica. Sulle gradinate laterali da una parte un lacerto di colonna a simboleggiare il passato, dall’altra rottami di una futuribile navicella spaziale. Il resto è costruito attraverso l’uso di ingegnosi fasci laser, per lo più rossi o blu, sparati di taglio, e le macchine del fumo che per tutto lo spettacolo hanno inondato il palcoscenico. Tutto molto rumoroso (per Poda è il rumore costante della guerra che soggiace alla vicenda di Aida e Radames).

Unica trovata emozionante, i corpi nudi degli schiavi etiopi che compaiono squarciando il palcoscenico e ammassandosi numerosissimi attorno al loro re, Amonasro.

Tutto appare slegato, un susseguirsi di effetti e di simbolismi difficili da comprendere (forse nemmeno il regista voleva attribuirne un senso) come l’enorme palla argentata che sale verso il cielo sballottata dal vento, e la storia dolorosa dei due protagonisti e dell’Egitto immaginato da Verdi è qualcosa che non si lega con quanto capita sul palco. Poda da un lato, Verdi dall’altro. Nessuna emozione, nessun tentativo di creare una drammaturgia: solo una macchina sfavillante, gelida e alla ricerca continua dell’effetto che alla fine fa il verso a sé stessa.

Sul versante musicale le cose hanno funzionato meglio. La coppia glamour della lirica ha fatto il suo: Anna Netrebko, dopo un inizio un po’ sfocato che lasciava intendere una serata non delle più felici, si è presto scaldata e ha dato il meglio di sé soprattutto nel terzo e quarto atto. La voce è quel portento che si conosce e i suoi magnifici pianissimi impressionano per la purezza e la capacità di correre nell’infinita cavea areniana. Sul palco, lasciata a sé stessa, ha dominato in virtù dell’innegabile carisma. Accanto a lei Yusif Eyvazov è l’interprete affidabile di sempre: voce dal timbro infelice, ma sicura negli scatti verso l’acuto e apprezzabile nelle mezzevoci con cui intona il duetto finale. Detto dell’eccellente smalto timbrico e della presenza scenica di Michele Pertusi, il resto era molto routinier. Non è chiaro perché si sia voluta Olesya Petrova come Amneris, quando si poteva avere molto di meglio. Il mezzosoprano russo ha tratteggiato una rivale grezzotta e sguaiata: non basta una voce potente per creare il personaggio se mancano finezza, fraseggio e un certo dominio scenico.

Analogo discorso per l’Amonasro del baritono siberiano Roman Burdenko, immaginiamo in cattiva serata visto l’esito complessivo della sua prova. La voce non correva, poco timbrata in basso, anonimo il fraseggio. Buoni gli altri.

Al direttore Marco Armiliato l’arduo compito di tenere tutto insieme: orchestra, coro (ottimo, e si è sentito il peso di un grande maestro come Roberto Gabbiani) e cantanti. L’ha fatto con mano sicura, soprattutto a partire dal secondo atto in poi, mostrando ancora una volta di essere un affidabilissimo accompagnatore di voci e per questo richiestissimo dai cantanti. Netrebko in primis.

Il pubblico ha gradito, applaudendo ripetutamente nel corso dell’opera e alla fine tributato un vivo successo a tutti. Ci è parso anche di udire un “Eja, eja, alalà” dal palco d’onore, ma forse era l’emozione di aver partecipato ad una serata che rimarrà nella storia (?).

Stefano Pagliantini

Foto: Ennevi

Data di pubblicazione: 18 Giugno 2023

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