Un Bellini “dipinto” infiamma il Verdi di Trieste

BELLINI I Capuleti e i Montecchi C. Sala, L. Verrecchia, M. Ciaponi, P. Battaglia, E. Cordaro; Coro e orchestra del Teatro Verdi di Trieste, direttore Enrico Calesso regia Arnaud Bernard scene Alessandro Camera costumi Carla Ricotti luci Paolo Mazzon

Trieste, Teatro “G. Verdi”, 24 febbraio 2023

Ci sono spettacoli che non entreranno nella storia, ma che per singolare congiuntura trovano un angolo caldo nel cuore del pubblico. E anche nel mio, che pur ricorda come fosse ieri, nel medesimo teatro, l’edizione di qualche anno fa (49 per l’esattezza) diretta da Bruno Bartoletti con una rigogliosa Ricciarelli ed il Romeo (oggi diremmo trasgressivo e trasgredito) di Veriano Luchetti.  Ora invece, tenuto saldamente sul crinale delicato del classicismo da Enrico Calesso, l’opera belliniana con i suoi frettolosi e sofferti raccomodamenti, le sue fragilità e le sue infinite bellezze, un angolo fra le tenere memorie se lo ritaglia per la felice corrispondenza con cui musica e immagine vivono, nel segno della giovinezza, il sentimento della “bella morte” che in Bellini è presagio proprio e del romanticismo che sarà. Prodotto da Verona e Venezia, lo spettacolo altamente “pittorico”, non solo perché la regia di Armaud Bernard lo immagina in una sorta di attuale museo in riallestimento, dove restauratori, tappezzieri, maestranze vanno e vengono durante la sinfonia, a configurare poi (forse con qualche intrusione di troppo) gli spazi dell’azione di cui i personaggi storici della quadreria (Capuleti e Montecchi appunto, come usciti dalle antiche cornici) si appropriano. Non solo dunque per questa dimensione pittorica inserita ad abitare un’altra dimensione scenica ben progettata da Alessandro Camera, non solo per i costumi di Carla Ricotti che sembrano confezionati nell’atelier del “sarto” di Giovan Battista Moroni alla National Gallery; ma soprattutto perché la  compagnia di canto, anche grazie alla concertazione e alla delicatezza del tessuto strumentale offerta dal direttore, (ri)vive la storia di Romeo e Giulietta con lo sbalzo di  una straordinaria evidenza. La giovanissima Giulietta di questa edizione (Caterina Sala) colpisce per la politezza vocale nell’arcata lunga, nel controllo del suono, nel toccante fraseggio, nell’accento elegiaco: qualità che si sommano al trepido coinvolgimento del personaggio, quasi cantante-reincarnazione di un dipinto di Pacifico Buzio per l’Imelda de’Lambertazzi donizettiana, non a caso analoga e coeva ai Capuleti. E come raramente avviene in questa corrispondenza musicale e scenica, c’è poi la sorpresa di un Romeo che balza a brando snudato come il tenore Duprez, fremente, flessuoso, a nervi tesi nella giovinezza impetuosa della parte, incisivo nel declamato, luminoso nell’emissione: è il Romeo bellissimo di Laura Verrecchia, in cui forse si può desiderare una più ombrata densità del registro inferiore. Se un difetto si può trovare in questa coppia è la somiglianza timbrica che quasi identifica specularmente i due personaggi.

Si aggiunga nella parte di Tebaldo la lucida spavalderia vocale del tenore Marco Ciaponi, specie nella cabaletta d’esordio a freddo “L’amo, l’amo e m’è sì cara” con l’effetto della ripetizione “rattenuta”. Paolo Battaglia è un Capellio di severa prestanza, mentre Emanuele Cordaro è un corretto Lorenzo. Orchestra ammirevole con i preziosi contributi solistici delle prime parti cui Bellini affida l’essenza della propria melodia. Di rilievo la prestazione del coro anche nella scattante mobilità gestuale imposta dalla regia. Tutti a ricomporsi in un tableau vivant di grande presa ad esaltare un successo finale schietto e caldissimo con coda interminabile di incandescente entusiasmo per la coppia protagonista.

Gianni Gori

Data di pubblicazione: 27 Febbraio 2023

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