Mitridate alla Scala, finalmente l’opera seria

Christophe Rousset

MOZART Mitridate, re di Ponto L. Sekgapane, J. Pratt, O. Bezsmertna, R. Neggar-Tremblay, M. Kokareva, A. Kent, N. van Essen; Les Talens lyriques, direttore Christophe Rousset

Milano, Teatro alla Scala, 18 maggio 2025

All’inizio di questa primavera, il Teatro alla Scala ha allestito L’opera seria di Gassmann: il problema dell’operazione è stato non certo il confezionare una nuova produzione intorno a un titolo rarissimo, ma piuttosto che lo specifico genere lì messo metateatralmente in burletta è oggi ignorato in blocco a Milano; sono mancati un contesto, un percorso, una logica di programmazione, un’occasione di formare il pubblico, se inesperto, o di gratificarlo, se già scaltro. Spiace allora che dopo poche settimane la stessa istituzione presenti un titolo ideale da premettere – non posporre – al precedente, e che lo liquidi con una singola esecuzione in forma di concerto anziché dedicargli il meritato allestimento scenico mai avvenuto alla Scala: si tratta infatti di Mitridate, re di Ponto, la prima opera seria di un Mozart nemmeno quindicenne, creata proprio a Milano sul finire del 1770. Ad aggravare il paradosso, si aggiunge il fatto che il concertatore di questo Mozart, Christophe Rousset, è lo stesso di quel Gassmann, e che medesima è l’orchestra, Les Talens lyriques, ora però non miscelata con professori di quella scaligera.

Fermo resta che la lettura strumentale sia di riferimento, per l’elegante misura e insieme per l’incisivo tratto: musicista sopraffino, Rousset è uno di quei dinosauri ancora soddisfatti di fare musica giusta anziché strana. A condizionare la ricezione del suo lavoro è tuttavia una bislacca serie di mende evitabili, in varia gamma: anziché disporsi lungo tutta l’ampia larghezza del boccascena, l’orchestra si restringe al centro e dà idea di esiguità sonora; i tre atti sono bizzarramente distribuiti in due parti, la prima delle quali, di ben due ore, va dalla Sinfonia a quasi tutto l’atto II: s’interrompe finita la penultima scena e vede così sia mozzata una liaison, sia aperta la parte successiva con un finale d’atto; i pezzi chiusi ci sono tutti ma i recitativi sono sforbiciati a casaccio, se non altro abbreviando il tormento di chi li canta senza capirne le parole (o di chi li ascolta declamati a tentoni). La compagnia di canto ostenta appunto di non accogliere nemmeno un madrelingua, poiché – si sa – il Mozart italiano, e soprattutto quello composto ieri per Milano ed eseguito oggi a Milano, è utile rimanga una faccenda di mercato estero: questo stesso Mitridate concertistico è d’altra parte atteso al Théâtre des Champs-Élysées sette giorni dopo, e vuoi mai che anche un solo cantante latino abbia a disgustare il pregiudizio vociologico di Parigi.

Vistosa è la disomogeneità d’assortimento, probabile figlia del compromesso tra le istanze di Rousset e quelle del passato sovrintendente della Scala (tuttora nel consiglio d’amministrazione degli Champs-Élysées). Al vertice, prima donna perfetta tanto nel risoluto patetismo dell’espressione quanto nell’esibito virtuosismo senza rete, si colloca, come Aspasia, Jessica Pratt, esempio di diva del grande repertorio romantico a proprio agio anche fra impianti rococò, intenzioni filologiche e strumenti originali: fin dall’aria di sortita, la serata è anzitutto una faccenda di lei e dei suoi ammiratori. Seguono la sua scia altri due soprani prestati solo in via occasionale alla scrittura di Mitridate, non sempre sciolte nelle semicrome ma col vantaggio di vocalità solide, smaltate e sonore: Olga Bezsmertna, che alla Scala ha cantato anche Dvořák, Strauss e Wagner, presta al primo uomo Sifare una vigoria d’accento che sarebbe una gioia godere più spesso in Mozart, mentre Maria Kokareva, come seconda donna Ismene, debutta nello stesso teatro all’insegna di una luminosa ortodossia tecnica e richiamando su di sé l’attenzione degli appassionati. Le note dolenti iniziano dal secondo uomo, Farnace, parte favolosa per la quale sarebbe doveroso munirsi di un Franco Fagioli o un Carlo Vistoli, là ove qui ci si deve accontentare dei mezzi aridi, esigui e affettati di Rose Neggar-Tremblay, mezzosoprano il cui stilismo sarebbe lodevole se non cozzasse con l’idiomatismo musicale e prosodico italiano.

Come spesso avviene nell’opera seria, dove il titolo spetta personaggio più alto in rango sociale ma non per questo anche drammaturgico, Mitridate sembra il protagonista e non lo è. La scrittura musicale, tutta di sbalzo, nondimeno inquieta, e invita alla cautela di casting qui mancata: prima è stato sorprendentemente annunciato Sergey Romanovsky, grande tenore del quale si sono però diradate da tre anni le tracce dopo una crisi vocale, poi è avvenuto il grottesco rimpiazzo con Siyabonga Maqungo, interprete carente persino nel caratterismo di Froh al Rheingold milanese dell’autunno scorso. La soluzione finale, che avrebbe reclamato un baritenore pieno d’autorevolezza, è slittata a Levy Sekgapane, evanescente tenore contraltino dalla recitazione sovraccarica e comicamente stizzosa, come si addice al Monostatos della Zauberflöte e non al tirannico, tremendo re di Ponto. C’è poi sempre un guastafeste che peggiora il pasticcio, e in questo caso si tratta di Alasdair Kent, un tenore che, al netto della patina fonetica inglese, ha però linea di canto squisita, nobile legato, timbro puro, ottima proiezione e vocalizzazione disinibita: quanto a basta a sotterrare, dall’unica ma ardua aria del comprimario Marzio, la prestazione del collega. Funzionale Nina van Essen come Arbate. Gran successo di pubblico, a riprova che il capolavoro di un Mozart adolescente avrebbe meritato un più convinto spazio nel cartellone della Scala.

Francesco Lora

Data di pubblicazione: 21 Maggio 2025

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