
MOZART Krönungsmesse K 317; Ave verum corpus K 618; Exsultate, jubilate K 165; Te Deum K 141 soprano Rosalia Cid mezzosoprano Mara Gaudenzi tenore Lorenzo Martelli basso Davide Giangregorio Orchestra Sinfonica e Coro Sinfonico di Milano, direttore Julius Zeman
Milano, Basilica di Sant’Ambrogio, 3 dicembre 2025
Nella cornice già carica di storia della Basilica di Sant’Ambrogio a Milano, il concerto del 3 dicembre, pensato per l’apertura del nuovo percorso culturale “Ambrosius, il Tesoro della Basilica”, e sostenuto da Auxologico di Milano e Carbo Terma metteva in dialogo due realtà che, come ha ricordato l’abate Carlo Faccendini citando Papa Ratzinger, “le due cose che concorrono in modo straordinario a rendere evidente la fede sono la vita dei santi e la bellezza che la fede ha prodotto nei secoli”. Sul versante musicale, l’Orchestra Sinfonica e il Coro Sinfonico di Milano, guidati da Julius Zeman, proponevano un programma interamente mozartiano: la Krönungsmesse in do maggiore K 317, l’Ave verum corpus K 618, Exsultate, jubilate K 165 e il Te Deum K 141, con Rosalia Cid (soprano), Mara Gaudenzi (mezzosoprano), Lorenzo Martelli (tenore), Davide Giangregorio (basso) e Massimo Fiocchi Malaspina maestro del coro.
Fin dalle prime battute della Krönungsmesse è evidente come la vera protagonista nascosta della serata sia l’acustica della basilica: generosa di riverbero, ma poco indulgente con i grandi organici. Il gesto di Zeman è pulito, ordinato, sempre coinvolto, ma la ricerca di un suono pieno porta spesso a dinamiche troppo spinte per lo spazio. I forte e gli accenti richiesti con generosità finiscono per creare un “pastone” acustico nella sezione degli archi, che faticano a emergere come corpo sonoro definito, mentre a bucare la “nuvola” acustica sono soprattutto i fiati e i timpani.
In questo quadro, a guadagnarci è in particolare il Coro Sinfonico di Milano, ben preparato da Massimo Fiocchi Malaspina: l’emissione compatta ma senza eccessi e l’articolazione chiara permettono alle voci corali di superare l’impasto orchestrale e di arrivare all’ascoltatore con maggior nitidezza. Il “Kyrie” con i suoi accenti e poi piano mostra la saggezza di Mozart nella scrittura da chiesa in una sintesi tra impeto e raccoglimento, mentre nel “Gloria” molto più articolato chi emerge con chiarezza resta il quartetto di solisti.
L’architettura sonora si fa più trasparente nel “Benedictus”, dove il numero ridotto di strumenti e l’intervento del quartetto dei solisti restituiscono finalmente il respiro cameristico che la basilica sembra chiedere. Qui gli archi, meno schiacciati dal volume complessivo, trovano una loro chiarezza di profilo; il suono smette di essere massa indistinta e recupera una tessitura più leggibile, a beneficio tanto della linea vocale quanto dell’ascoltatore.
Molto riuscito l’“Agnus Dei”, nel quale l’uso delle sordine agli archi rende l’acustica improvvisamente più benevola: il suono si fa ovattato, la risonanza più controllata, il rapporto tra orchestra e voci si riequilibra. Rosalia Cid voce stella della serata cesella una dolce messa di voce sul “miserere nobis”, sfruttando il lungo respiro delle frasi mozartiane senza mai forzare l’emissione. L’oboe emerge “come fosse una fonte”, con un timbro chiaro e morbido che sembra zampillare dal tessuto orchestrale, e per la Cid il fraseggio nel “nobis” è un unico filato di respiro, continuamente sospeso, quasi a tenere il tempo del raccoglimento più che quello della pura cantabilità.
Il quartetto dei solisti funziona particolarmente bene nei momenti a quattro, dove la collocazione fisica più avanzata e un equilibrio naturale tra le voci creano una omogeneità timbrica che l’acustica, paradossalmente, aiuta invece che danneggiare, come nel “dona nobis pacem”.
Rosalia Cid, definita da un timbro tenue, non troppo prorompente, scolpisce una linea vocale che è davvero una “carezza acustica”: il suo canto privilegia la morbidezza del legato e la purezza dell’intonazione più che l’effetto di proiezione a tutti i costi. Il risultato è particolarmente felice nei passaggi più intimi della Messa, quasi sussurrata, scelta che si rivela intelligente in uno spazio dove ogni eccesso sonoro rischia di diventare indistinto.
Lorenzo Martelli mette in campo una voce tenorile dal centro chiaro e ben focalizzato, che si inserisce con naturalezza nella trama del quartetto senza sovrapporsi alle altre voci; le sue frasi hanno una musicalità sempre sorvegliata.Davide Giangregoriooffre un canto saldo e regolare, più autorevole nei passi corali e d’insieme che nei rari incisi davvero solistici, ma sempre affidabile nel dare fondamenta armoniche al quartetto. Mara Gaudenzi nelle sue parti, seppur contenute, trova un perfetto equilibrio con Rosalia Cid.
Invece l’Ave verum corpusresta forse la parte meno valorizzante dell’intero concerto, il suono di orchestra e coro sembra inseguirsi guidato da una gestualità e colore che poteva cercare il pianissimo e creare l’atmosfera che il pezzo richiede, ma purtroppo risulta più essere un riempimento di programma che una scelta attenta e consapevole sulla quale si è voluto approfondire.
In Exsultate jubilate la voce di Rosalia Cid deve misurarsi con un’altra difficoltà: la scrittura virtuosistica e luminosa, che chiede brillantezza e verticalità, incontra la lunga coda di riverbero della basilica. La scelta interpretativa sembra consapevole: più che accentuare la dimensione spettacolare delle colorature, la solista le ammorbidisce, cercando la linea più che il virtuosismo “di punta”. Ne nasce un Exsultate forse meno scintillante sul piano pirotecnico, ma coerente con il contesto liturgico e architettonico: un intonare la gioia che rimane preghiera, più che aria da concerto; tutto ciò rendendo Rosalia Cid l’artista acclamata di questa serata.
Il Te Deum K 141, posto in chiusura di serata, ritrova il carattere celebrativo che ci si aspetta da una pagina così solenne, ma porta con sé anche tutti i limiti acustici già emersi: nei momenti più pieni l’orchestra dilata il suono oltre il punto di fuoco ottimale, e ancora una volta sono il coro e i fiati a dare leggibilità alla struttura. Il senso complessivo è quello di una notte in basilica segnata, musicalmente, da una continua ricerca di un’acustica che non dà tregua: quando gli organici si assottigliano, la musica di Mozart respira e si lascia cogliere nella sua finezza; quando il volume cresce, la basilica impone il suo carattere, trasformando ogni forte in un blocco sonoro monolitico.
Julius Zeman ha diretto con partecipazione e coinvolgimento, ma spesso senza una piena consapevolezza dell’effetto che la basilica restituisce: una maggiore attenzione alla gradazione dinamica e all’uso delle mezze tinte avrebbe probabilmente giovato alla leggibilità della scrittura mozartiana e al comfort di ascolto.
Mirko Gragnato