Bergamo, il festival della rinascita

L’elisir d’amore

“C’erano una volta due bergamaschi”

Operashow della Bottega Donizetti
a cura di Alex Esposito
drammaturgia di Alberto Mattioli
musiche di Gaetano Donizetti, Jacques Offenbach, Gioachino Rossini, Wolfgang Amadeus Mozart, Arrigo Boito, Hector Berlioz

Donizetti Opera Ensemble, pianoforte Michele D’Elia direttore Alberto Zanardi basso Alex Esposito, Artisti della Bottega Donizetti, regista collaboratore Stefano Simone Pintor

Bergamo, Teatro Sociale, 18 novembre 2021

Il messaggio finale nella serata inaugurale del Festival Donizetti Opera 2021 apre alla speranza per una ripresa globale di tutte le attività culturali, le quali, mai come in questo periodo, stanno soffrendo, oltre che dal mero lato economico anche nella fruizione quotidiana dal vivo dello spettacolo creato da artisti che interagiscono con il pubblico. Di questa interazione si è avuta netta percezione durante lo svolgersi della serata dedicata a due artisti bergamaschi, dei quali uno è il tramite dell’altro ossia Gaetano Donizetti ed Alex Esposito.

Superato il classico tradizionale concerto per voce e pianoforte o comunque per voce ed accompagnamento strumentale, la creazione scenica di voce e narrazione a cura di Alberto Mattioli ha permesso di tracciare con precisione quelli che sono stati alcuni punti di snodo della carriera di entrambi gli artisti.

Stante che una formula di questo tipo non sia di immediata percezione e vada sicuramente calibrata con sapienti dosaggi, l’ora e mezza circa di spettacolo è risultata godibile sia per l’ottima interpretazione degli artisti sia per l’equilibrio tra scena, voce narrante (Francesco Micheli) e azione teatrale.

Un velo di ironia e di raffinata spensieratezza si è sparso qua e là accanto a momenti di maggiore introspezione e riflessione dei quali senza dubbio il più toccante è stato ricordare in quale triste situazione si trovasse tutta la provincia bergamasca poco meno di due anni fa. Da qui scaturisce il messaggio di speranza per una ripresa pur così faticosa e ancora non del tutto esente da rischi, che si è sparso benevolmente nella parte finale del programma.

Dal punto di vista strettamente musicale le voci dell’Accademia Donizetti hanno saputo ben coadiuvarsi con Alex Esposito nell’eseguire le pagine proposte che spaziavano da Donizetti a Berlioz e Boito, senza trascurare Mozart e Rossini, tutti cardini nella carriera di Esposito.

In buca pochi strumentisti e il pianoforte supportano al meglio il palcoscenico, sia nel sorreggere le parti cantante, sia per i brani recitati di raccordo. L’azione scenica ha giocato con eleganza su luci e simboliche proiezioni che poco o nulla hanno disturbato i cantanti, integrandosi con sobrietà.

Buon esito finale, con applausi calorosi per tutti gli interpreti.

Emanuele Amoroso

La fille du régiment

DONIZETTI L’elisir d’amore C. Sala, J. Camarena, F. Sempey, R. Frontali, A. Mejías, M. Ferreira; Coro Donizetti Opera, Orchestra Gli Originali, direttore Riccardo Frizza regia Frederic Wake-Walker scene Federica Parolini costumi Daniela Cernigliaro

Bergamo, Teatro Donizetti, 19 novembre 2021

MAYR Medea in Corinto R. Lorenzi, M. Angelini, C. Remigio, J. F. Gatell, M. Torbidoni, C. Di Tonno, M. Nardis; Coro Donizetti Opera, Orchestra Donizetti Opera, direttore Jonathan Brandani regia Francesco Micheli scene Edoardo Sanchi costumi Giada Masi

Bergamo, Teatro Sociale, 20 novembre 2021

DONIZETTI La fille du régiment A. Bignagni Lesca, P. Bordogna, J. Osborn, S. Blanch, C. Bugatty, H. Andrianos, A. Corrado, A. Civetta; Coro dell’Accademia del Teatro alla Scala, Orchestra Donizetti Opera, direttore Michele Spotti regia Luis Ernesto Doñas scene Angelo Sala costumi Maykel Martínez

Bergamo, Teatro Donizetti, 21 novembre 2021

Il Teatro Donizetti di Bergamo è stato oggetto di un profondo restauro che l’ha restituito più funzionale e splendente, rimesso a nuovo ma senza apporvi quella patina di gusto kitsch che talvolta lasciano i restauratori meno rispettosi. I lavori, avviati nel 2017, dovevano concludersi per il festival del 2019, ma quell’anno il teatro era ancora un cantiere aperto, e fu possibile rappresentarvi solo L’ange de Nisida con i cantanti in platea e il pubblico nei palchi. L’autunno scorso, l’esigenza di allestire gli spettacoli in platea era dettata da ben altre ragioni: le stesse per le quali il pubblico in teatro non poteva affatto entrare, e le opere sono state fruibili soltanto in streaming. Così, con due anni di ritardo, il festival Donizetti Opera 2021 ha segnato la restituzione alla comunità di Bergamo e al mondo dei melomani del principale teatro cittadino come luogo di arte, di cultura e di socialità. Dopo le chiusure imposte dai lavori e dalla pandemia, il festival e il teatro dedicati a Donizetti hanno riaperto le porte insieme in quella che è stata una grande occasione di festa; anche se le notizie che proprio in quei giorni giungevano d’Oltralpe non permettono di abbassare la guardia né di dare per scontato che il tempo dei teatri chiusi sia definitivamente alle spalle.

Per la speciale circostanza, il direttore artistico Francesco Micheli ha deciso di lasciare per un anno da parte le qui consuete rarità, e di celebrare il Donizetti più conosciuto, “riscoprendo” con occhio critico due suoi capolavori. Tutta musicale è stata la rilettura dell’Elisir d’amore, proposto nell’integralità dell’edizione critica, facendo conoscere agli ascoltatori tanti frammenti delle ripetizioni e delle code di quasi tutti i numeri musicali che nelle rappresentazioni di routine sono abitualmente tagliati, e restituendo al titolo la sua piena dimensione belcantistica. Una chicca è poi stata la scelta di sostituire, alla consueta aria di Adina che precede il finale ultimo, il rifacimento che Donizetti approntò probabilmente nel 1839: la nuova tonalità di la bemolle maggiore (in luogo di fa maggiore) garantisce una più graduale transizione tra la «Furtiva lagrima» e lo spiritoso finale, anche se la cabaletta «Ah l’eccesso del contento» risulta più convenzionale di quella che abitualmente si ascolta. L’aura belcantistica è stata accentuata dall’Orchestra Gli Originali, che suona su strumenti d’epoca: dopo un iniziale senso di spaesamento, e qualche assestamento ai fiati, l’atmosfera guadagna in calore e umanità, come dimostra il fagotto che, con un timbro più nasale e nostalgico del consueto, introduce la romanza di Nemorino. E le mani sapienti di un esperto donizettiano quale è diventato Riccardo Frizza garantiscono una perfetta tenuta tra buca e palcoscenico. I solisti si sono resi protagonisti di interpretazioni curate che hanno sottratto i personaggi alle tentazioni caricaturali per concentrarsi sul loro mondo interiore: ne è esempio il Dulcamara di Roberto Frontali, imbonitore credibile proprio per quel filo di reticenza di chi è costretto dalla necessità a rendersi imbroglione; o il Belcore del baritono Florian Sempey, che ha il fraseggio e i colori del giovane spensierato più che del soldato spaccone. I due ruoli principali sono stati appannaggio di un tenore acclamato (Javier Camarena) e un’esordiente quasi assoluta (il soprano Caterina Sala): se dal primo si è avuta conferma di quanto la carriera ha testimoniato, alla seconda — voce agile e brillante cui gioverà arrotondare il suono di alcune puntature — è arriso un successo che lascia presagire un fulgente futuro; saranno la determinazione e l’impegno nello studio di questa ragazza a farla diventare una meteora o una stella. La regia di Frederic Wake-Walker, facendo l’occhiolino alla riapertura del Donizetti, ha ambientato l’opera sul Sentierone di Bergamo, tra il teatro e i portici che lo fronteggiano, in tempi da noi non lontani; ma, a parte questo, e l’idea peregrina di far cantare al pubblico il coretto che apre il II atto, come se si fosse a una recita per scuole, non si è distinta per scelte particolarmente memorabili.

Tutta sulla drammaturgia si è invece giocata la rivisitazione della Fille du régiment, che il regista Luis Ernesto Doñas e il drammaturgo Stefano Simone Pintor hanno trasposto ai tempi della rivoluzione cubana, riscrivendo interamente i dialoghi parlati. Certo, nel momento in cui si sceglie di eseguire un’edizione critica (per lo più nuova, come quella in questione, curata da Claudio Toscani), è opinabile la decisione di non rispettarne le porzioni in prosa; ma la malleabilità che il genere dell’opéra-comique possedeva giustifica l’operazione in termini di fedeltà alla prassi esecutiva, e il risultato ha garantito una valorizzazione della freschezza della partitura e dei caratteri dei personaggi, inseriti in un contesto di vivaci contrasti cromatici. Non meno interessante è risultato il versante musicale di quella che si può considerare la produzione più riuscita del festival 2021: come per L’elisir, nessuna nota è stata amputata, e l’edizione critica ha rivelato dettagli inattesi, quali alcuni realistici interventi parlati che puntellano i numeri musicali. Il suono brillante degli strumenti moderni dell’Orchestra Donizetti Opera ben si sposa con lo spirito della partitura, e la direzione di Michele Spotti, dopo qualche eccesso militaresco nell’ouverture, è stata tutto sommato calibrata e coerente. Il soprano Sara Blanch dispone di una voce di dimensioni contenute, molto precisa e svettante negli acuti, talvolta un po’ dominata negli ensemble. La sua Marie, al di là della brillantezza di facciata, risulta più credibile nei momenti commoventi di fragilità, in cui domina la bellezza del canto legato, che nei canti camerateschi dai quali ci si aspetterebbe un più vivo tocco di mordente. La parte della Marchesa è stata rimpolpata facendo intonare El arreglito di Sebastián Yradier (il padre delle Habanere) al mezzosoprano Adriana Bignagni Lesca, che ha sfoggiato una voce estesa e dotata di risonanze carnali. Pochi ruoli si addicono oggi a Paolo Bordogna quanto quello di carattere di Sulpice, nel quale il solista si è perfettamente calato con grande proprietà di linguaggio. Un trionfo ha accolto il tenore John Osborn, che non ha risparmiato il bis di «Pour mon âme», anche se il vero gioiello è stata la sua prima intonazione, integrale e abbellita di ornamenti. E il suo Tonio non si è certo esaurito in diciotto do, dato che la scaltrezza tecnica, che nulla ha tolto all’ingenuità adolescenziale del personaggio, ha regalato nel secondo atto una romanza cantata a fior di labbro con sfumature in mezzavoce, da vero tenore di grazia, che ha incarnato perfettamente i sentimenti di disperazione sussurrata espressi dalla partitura.

Medea in Corinto

Il progetto «Donizetti200» — che prevede di mettere ogni anno in scena un’opera che compie due secoli — è andato in pausa, per la semplice ragione che nel 1821 Donizetti non ebbe debutti. Invece di anticipare un titolo del 1822, si è scelto di rappresentare un melodramma del suo maestro Giovanni Simone Mayr: Medea in Corinto, che proprio duecento anni fa fu presentata, nello stesso Teatro Sociale di Bergamo che ora la ospita, in una nuova versione alla cui preparazione non è escluso possa aver collaborato Donizetti. Rispetto alla prima napoletana del 1813, Mayr ebbe a disposizione compagini e solisti più modesti, e a questi adattò la partitura. Tuttavia, non si limitò a praticare arrangiamenti, ma riscrisse interi numeri musicali, o loro ampie porzioni, rivelando tra le pieghe delle pagine di aver assimilato la lezione rossiniana che in quel giro d’anni si era imposta sulle scene italiane; e, in assenza di un coro femminile, trasformò le pagine che coinvolgono il coro per dare un senso drammaturgico alla presenza di sole voci maschili: esempi di come l’artigianato sapesse trasformarsi in arte nella scuola in cui si formò Donizetti. L’allestimento dell’opera è stato curato da Francesco Micheli, il quale ha spostato la vicenda nel secondo Novecento italiano delle migrazioni verso i grandi centri urbani: i protagonisti vivono in un palazzo dove si consumano adulteri — forse più mentali che fisici –, le coppie si lacerano lasciando ferite profonde nei figli — che sono già adolescenti e non vengono uccisi –, i custodi dello stabile sono metà confidenti e metà complici. Una rilettura portata a termine con coerenza, tra flashback e proiezioni oniriche, che non ha mancato di suscitare entusiasmo nei presenti, ma della quale personalmente fatico a cogliere il legame con la partitura di Mayr. Troppo profonda è la distanza tra un’eroina della tragedia classica e una casalinga degli anni ’70, troppo rare sono le pagine in cui la musica parla di quel mondo quotidiano che viene messo in scena (eccezione positiva è il riuscito duetto di Giasone e Creusa nel II atto), troppo estraneo il finale I alla dimensione onirica. Tutti gli interpreti, nelle prime come nelle seconde parti, si sono impegnati per rispondere fedelmente alle richieste registiche, dando vita a personaggi sfaccettati, e sono stati apprezzabili dal punto di vista vocale. Dei due tenori, Juan Francisco Gatell (Giasone) è premiato dalla naturale bellezza del timbro di una voce chiara e limpida ma non priva di tensione eroica; mentre Michele Angelini si ammanta di venature baritonali ma tende a perdere lucentezza nelle regioni più acute dell’impervia parte di Egeo. Sul fronte femminile, Marta Torbidoni è una convincente Creusa, squisitamente borghese. Ma trionfatrice della serata è stata Carmela Remigio, che ha trovato nella protagonista l’ennesima donna tormentata che nelle sue mani diviene un capolavoro di interpretazione melodrammatica, nonostante il timbro sia parso qua e là un po’ appannato. Nel I atto, in adesione alla lettura registica, ella sottrae Medea alla sua statura tragica per proiettarla nel mondo della quotidianità; nel secondo, dove quella statura tragica emerge con evidenza incontrovertibile dalla partitura, ha agio di esprimere appieno la propria personalità artistica restituendo al personaggio la sua vera natura, tanto nell’aria ctonia quanto nell’ultimo passo solistico, dove la tornitura del verso, realizzata con un fraseggio cesellato e sostenuta da una scaltrezza tecnica invidiabile, ha dato voce alla tragedia umana della donna spinta dall’abbandono al più innaturale dei delitti.

Il connubio di filologia e sperimentazione, che da alcuni anni accompagna le produzioni del festival Donizetti Opera, segna sempre più l’identità della rassegna e — indipendentemente da quanto ciascuno possa riconoscersi nei singoli risultati — accresce la visibilità internazionale di Bergamo e del compositore, che ha finalmente trovato una sede nella quale sia riconosciuto e trattato non come gradevole tappabuchi dei cartelloni ma come uno dei più grandi operisti della storia. Per chi non abbia già ricevuto soffiate, restano aperte le scommesse su quale dei quattro titoli del 1822 sarà il «Donizetti200» della prossima edizione.

Marco Leo

Foto: Gianfranco Rota

Data di pubblicazione: 3 Dicembre 2021

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