A Firenze una “Forza” da non guardare

Il finale dell’opera

VERDI La forza del destino A. Spina, S. Hernández, A. Enkhbat, R. Aronica, A. Stroppa. F. Furlanetto. N. Alaimo, L. Cortellazzi, F.S. Venuti, R. Lyulkin; Orchestra e coro del Maggio Musicale Fiorentino, direttore Zubin Mehta regia Carlus Padrissa scene Roland Olbeter costumi Chu Uroz

Teatro dell’Opera di Firenze, 19 giugno 2021

La forza del destino. Non è una delle opere di Verdi rappresentate più di frequente. Richiede almeno sei voci di grande livello (un soprano “assoluto”, un tenore “spinto”, un baritono, un mezzosoprano, un basso drammatico e un baritono-basso buffo), alcuni caratteristi ed un corpo di ballo: in effetti è il prototipo del “grand-opéra padano” che si sarebbe affermato negli ultimi decenni dell’Ottocento in una parte della Penisola. Ha un libretto scarsamente credibile, la cui azione, molto macchinosa, si svolge tra varie parti della Spagna ed in Italia nella guerra tra Madrid e Vienna per il controllo della Penisola. Ne esistono due versioni di base: la prima del 1862, composta per San Pietroburgo, è byroniana e disperatamente atea; la seconda, rivista e adattata per la Scala nel 1869, apre la porta alla fede ed ha un finale edificante, manzoniano, sul perdono. Nei sette anni tra le due versioni, Verdi aveva stretto amicizia con Alessandro Manzoni; ciò spiega il senso di dubbio di fronte all’Alto dell’edizione del 1869. Infine, sulla Forza incombe la diceria di essere di cattivo augurio a teatri ed interpreti: un noto baritono, Leonard Warren, è morto in scena al Metropolitan di New York mentre la cantava e in altre occasioni hanno avuto luogo diverse disavventure.

Nell’edizione in scena al Festival del Maggio Musicale Fiorentino viene utilizzata la versione critica di Philip Gossett dell’allestimento scaligero del 1869. Vengono aperti tutti i cosiddetti tagli di tradizione, con il risultato che lo spettacolo dura circa quattro ore, intervalli compresi. C’è una modifica voluta, pare, dalla regia. Il primo duetto di sfida tra Don Alvaro e Don Carlo a San Pietroburgo era posto alla fine dell’atto III, coronato da una cabaletta del tenore, mentre a Milano venne preceduto da un coro di ronda, fu spostato prima della grande scena d’assieme e perse lo sfociare nella cabaletta. Qui viene mosso dal luogo ove l’ha collocato Verdi ed il terzo atto perde di unità drammaturgica.

L’allestimento scenico de La forza del destino è sempre difficile: ne vidi uno al Metropolitan di New York con, nel secondo atto, Leonora vestita da viaggio in pantaloni alla zuava e tutto il resto era ridicolo. Tra i miei ricordi, un allestimento all’Opera di Roma nel 1982 con scene di Guttuso ed ambientato nella guerra civile spagnola del 1936; bellissimo. Si è visto alla Scala. Perché non riprenderlo invece di lambiccarsi il cervello alla ricerca di novità per — come dicono i francesi — épater le bourgeois?

In questa nuova produzione, la già complicata vicenda viene spalmata in un arco di tempo tra il 1758 a Siviglia (primo atto) ed il 3333 (quarto atto), dopo una guerra nucleare che ha ridotto l’umanità allo stato primitivo, tanto che il duello finale tra Don Carlo e Don Alvaro è a colpi di clava. Alla Forza del destino non si addicono le guerre stellari: ha già abbastanza problemi di per sé stessa. Non è il caso di infierire. Nonostante i bei video di Franc Aleu (che possono andare bene per una dozzina di opere), mi sento di suggerire a Carlus Padrissa ed ai suoi più stretti associati un anno “sabbatico” in cui apprendere il nesso tra musica, libretto ed azione scenica ed a fare recitare i cantanti, invece di tenerli in pose da teatri di provincia degli anni Cinquanta del secolo scorso.

Per fortuna ci sono i complessi del Maggio ed il carissimo Zubin. La direzione d’orchestra è, per certi aspetti innovativa: nella sinfonia i tempi sono serrati, ma nel resto dell’opera dilatati quasi a fare percepire la profondità dei concetti ispiratori dell’opera (nonostante un libretto piuttosto mediocre). Mehta non copre mai i cantanti ma li aiuta ed asseconda. Sottolinea l’abilità di gruppi di strumenti (magnifici i fiati). Ci ricorda che il tema ricorrente (quasi la sigla dell’opera) non è un Leitmotiv wagneriano ma un magnifico tema mnemonico verdiano che anticipa gli sviluppi in Don Carlos e soprattutto in Aida. Il coro, preparato da Lorenzo Fratini, giganteggia specialmente nel finale del secondo e nel terzo atto. Il pubblico ha meritatamente risposto a Mehta ed a Fratini non con applausi, ma con ovazioni.

Come ne Il trovatore di recente visto ed ascoltato a Roma, tra i protagonisti le voci femminili hanno avuto accenti migliori di quelle maschili. Saioa Hernández debutta il ruolo di Leonora con sicurezza invidiabile del registro acuto e una buona gestione dei centri. Molto brava nel primo atto in Me pellegrina ed orfana e svettante nella preghiera corale del secondo; mostra quindi una buona ricchezza dinamica nel Pace, mio Dio del quarto atto. Ha avuto molti applausi a scena aperta. Annalisa Stroppa è una Preziosilla a tutto tondo: svettante, seducente, maliziosa resa quasi come una prostituta — non una zingara/vivandiera — al seguito delle truppe, con un leggero tono brechtiano, e quindi un po’ sinistro, nel Viva la guerra. Il Rataplan è stato smorzato a ragione delle manipolazioni del terzo atto da parte della regia. Ho ascoltato più volte Roberto Aronica nel ruolo di Don Alvaro; ha iniziato quasi debolmente nel duetto e nella scena del primo atto. Ha intonato con fragranza Oh, tu che in seno agli angeli al terzo ma pare avere perso stimoli nel resto dell’atto, per riprenderli nel duetto Invano, Alvaro nel quarto. In breve, una prova matura ma discontinua. Amartuvshin Enkhbat, designato come prossimo Rigoletto scaligero ha, senza dubbio, mezzi vocali imponenti, ed una capacità di potenza e timbro ma è parso mancare di sfumature.

Infine, Nicola Alaimo è un Fra’ Melitone dal sapore donizettiano e Ferruccio Furlanetto un Frate Guardiano ancora imponente, nonostante abbia compiuto 73 anni, Ambedue (soprattutto Furlanetto) si sono meritati applausi.

Insomma, una Forza del destino da ascoltare, senza guardare l’azione scenica.

Giuseppe Pennisi

Foto: Michele Monasta

Data di pubblicazione: 22 Giugno 2021

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