L’Accademia della Bufala

L’Accademia della Bufala

di Carlo Vitali

 

 

Oggetto della presente discussione è il volume Mozart – La Caduta degli dei. Parte prima (d’ora in poi: “Il Libro”), uscito nell’aprile 2016 sotto l’etichetta Youcanprint Self-Publishing di Tricase (Lecce) ma stampato in Germania a cura di Amazon Distribution GmbH, Amazonstrasse 1, 04347 Leipzig, ISBN 978-8892602755, 458 pagine, 28 euro. Autori: Luca Bianchini e Anna Trombetta (d’ora in poi “B&T”).

Nota legale: a termini della normativa italiana sul diritto d’autore così come novellata dal D. Lgs. 9 aprile 2003 n. 68 e della Legge 9 gennaio 2008 n. 2 – con particolare riferimento all’art. 70, commi 1 e 1 bis – si precisa che la citazione e la riproduzione di passi del Libro in oggetto sono effettuati per uso di critica e discussione, senza scopo di lucro né tanto meno con l’intento di sostituire in tutto o in parte la pubblicazione originale.

 

Prima puntata: reductio ad Hitlerum

 

Adolf Hitler era vegetariano, animalista, astemio e capnofobo (cioè non sopportava i fumatori di tabacco), però faceva uso di cocaina, amava la musica di Mozart, Beethoven e Wagner, credeva nell’astrologia e baciava i bambini. Chiunque condivida almeno una di queste preferenze o avversioni del defunto dittatore può, a seconda dei casi, vedersi accusato di nazismo dai propri avversari allo scopo polemico di delegittimarne una specifica posizione mediante l’attacco alla sua reputazione, magari in flagrante contrasto con le sue convinzioni e la sua storia personale. In questo caso si potrebbe anche parlare di argumentum ad hominem. Dialoghetto non tanto immaginario: “Vai al Festival di Bayreuth? Allora sei un nazista, perché anche Hitler lo faceva”. “Ma veramente io sono ebreo come Hermann Levi e Daniel Barenboim, famosi direttori wagneriani. E mio nonno è morto ad Auschwitz”. “Allora hai interiorizzato l’antisemitismo nazista. Vergognati!”. Secondo il filosofo Leo Strauss (tedesco-americano di origini ebraiche) si tratterebbe di una fallacia logica derivata dall’antica reductio ad absurdum, sulla quale si basano per esempio le dimostrazioni dei teoremi di Euclide e le prove ontologiche dell’esistenza di Dio da Sant’Anselmo a Gödel.

Figlia degenere di una nobile madre, la reductio ad Hitlerum (ad Mussolinum, ad Stalinum, ad Berlusconem; ognuno vi sostituisca il nome che più aborre) è arma prediletta dai comizianti televisivi, dai sofisti da bar dello sport e da tutti coloro che, per ignoranza della materia trattata e/o incapacità di ragionamento logico, vogliono comunque apparire vincitori in una controversia (cfr. Schopenhauer, Eristische Dialektik, stratagemmi 32 e 38). Tale procedura è invece considerata squalificante nell’ambito della discussione scientifica e della divulgazione che ambisca ad essere considerata “alta”, “seria” e via aggettivando. Per valutare in sede preliminare la credibilità dei signori B&T e del loro Libro non pare dunque inutile esaminare alcuni passi dei primi due capitoli in cui si tratteggia la loro filosofia della storia in rapporto alla pretesa “demitizzazione” di Mozart.

Il prologo dei nostri autori non ha luogo in cielo, bensì in cineteca.

B&T p. 10: “Nel 1941 Goebbels voleva che si girasse un film su Mozart, per completare l’azione di propaganda nazista”. […] Il regista Karl Hartl (1899-1978) raccolse un distinto gruppo di artisti molto conosciuti al pubblico tedesco: Hans Holt nei panni di Mozart, Winnie Markus di Constanze, Walter Jessen [sic, recte: Jenssen] di Leopold e Curt [sic, recte Curd] Jürgens in quelli dell’imperatore Giuseppe II. Mancavano Da Ponte perché era un ebreo e i massoni perché Hitler non ce li voleva”.

Interessante, ma puzza d’imparaticcio. A parte i refusi nei nomi degli attori, lo dimostra la n. 19 di p. 11, dove B&T definiscono la Reichsfilmkammer “una società pubblica di Berlino che controllava tra il 1933 and [sic] 1945 l’industria cinematografica nazista”. Pensavano in inglese? No, hanno incollato di peso una pagina di Wikipedia traducendola malamente all’impronto. Cfr. https://en.wikipedia.org/wiki/Reichsfilmkammer. Quale attinenza poi ci sia fra la propaganda di un regime criminale e lo studio scientifico dell’opera di Mozart ci viene spiegato a p. 12: “Le pellicole musicali degli anni ’40 si affidavano alle ricerche storiche della Musikwissenschaft (musicologia) che era nata in Germania. […] Pescando nell’aneddotica sovrabbondante dell’Ottocento, Gobbels… [omissis].”

Riducendo la musicologia all’aneddotica ottocentesca, B&T ne sviliscono d’un colpo lo statuto scientifico e ne riportano la genesi alla patria delle Camicie Brune, peccato originale inespiabile per gli antifascisti a chiacchiere. Noi credevamo che tra i padri fondatori della disciplina figurassero, oltre l’italiano Giovanni Battista Martini (1706-1784), i britannici John Hawkins (1719-1789) e Charles Burney (1726-1814). Invece quelli non contano perché, a detta di B&T (p. 18), fu “Guido Adler (1855-1941), docente austriaco considerato il padre della musicologia moderna” a inventare “di sana pianta” il concetto austro-tedesco di Classicismo viennese fondato sulla falsa Trinità Haydn-Mozart-Beethoven, in ciò prendendo spunto da una retorica tirata di Karl Renner (1870-1950), un non-musicologo.

Si noti però che Renner era un politico moravo di tendenza socialdemocratica moderata, dapprima fautore poi oppositore dell’Anschluss; Adler un ebreo pure moravo, discriminato dopo l’arrivo a Vienna della Wehrmacht. Avendogli rubato la sua ricchissima biblioteca, i magnanimi vincitori gli concessero la sopravvivenza fisica ma ne anticiparono virtualmente la morte alla falsa data del 14 dicembre 1933, come si legge nell’infame Lexikon der Juden in der Musik curato da Herbert Gerigk. Né Renner né Adler potevano dunque nutrire particolari simpatie verso Hitler e seguaci; farne i padri di un mito culturale “austro-tedesco” [sic], nonché ispiratori della filmografia goebbelsiana, pare addirittura grottesco.

Ma B&T non demordono (p. 19): “dopo la seconda guerra mondiale i musicologi, seguaci di Adler, continuarono a credere in questa tradizione filo-nazista”. Dunque nazisti ante-marcia non solo Guido Adler, che nella prima edizione del suo Handbuch der Musikgeschichte (Francoforte 1924) aveva scritto un capitolo intitolato “Die Wiener klassische Schule”, ma anche il suo allievo Wilhelm Fischer, altro ebreo perseguitato (Zur Entwicklungsgeschichte des Wiener klassischen Stils, in “Studien zur Musikwissenschaft”, 1915) e l’inglese Frederick Corder (The Classical Tradition, in “The Musical Quarterly”, 1917).

Forse il nazionalsocialismo e la Wiener Klassik saranno frutto di una congiura tra la perfida Albione e gli altrettanto perfidi giudei, già attivata nel corso di quella prima guerra mondiale che fu voluta, come sa ogni buon revisionista, nell’esclusivo interesse della multinazionale bancaria Rotschild, nonché – ça va sans dire – della Massoneria? No, vedremo nella prossima puntata che le sue radici affondano ancor più lontano: nel Sacro Romano Impero di Nazione Germanica.

 

Seconda puntata: pulizia etnica

 

Affermano B&T (pp. 20-21): “Da un punto di vista storico ci fu l’interesse primario degli imperatori, dopo la pace di Aquisgrana, a controllare la produzione musicale, cioè i ‘mass media’ dell’epoca. Non si trattò di scuola di stile, ma di semplice opportunismo politico […]. Oggi, se tornassero in vita, baderebbero a controllare il cinema e la televisione.”

Tipico esempio di fantasmagoria controfattuale e ucronica. A prescindere da un mare di monografie recenti, per evitare la figuraccia bastava che i due Sondriesi consultassero un’onesta seppur datata compilazione di fonti d’archivio che è assente dalla loro pletorica bibliografia: Ludwig von Kochel, Die kaiserliche Hof-Musikkapelle in Wien von 1543 bis 1867: Nach urkundlichen Forschungen, Wien, Beck, 1869. “Nach urkundliche Forschungen”: ricerche documentarie, non bufale ideologiche. Vi avrebbero appreso che nelle loro scelte di politica musicale gli Asburgo seguirono sempre le correnti di gusto a suo tempo dominanti in Europa. Ovvio: “già che spendo i miei danari/ io mi voglio divertir” (Mozart, op. non cit.). La loro cappella di corte, divenuta centro di eccellenza anche per i livelli salariali piuttosto generosi, fu prevalentemente borgognona e tedesco-fiamminga con Massimiliano I e Ferdinando I. Con l’ascesa al trono di Ferdinando II nel 1619 ebbe inizio la lunga e quasi incontrastata egemonia italiana, destinata a durare fino alla morte di Carlo VI nel 1740. Che in quest’epoca non vi fosse “scuola di stile” è contraddetto dall’attivo interessamento di Ferdinando III, Leopoldo I, Giuseppe I e dello stesso Carlo VI, tutti musicisti praticanti. Leopoldo e Carlo erano persino in grado di sovrintendere alle prove sedendo al clavicembalo, effettuavano di persona le audizioni dei cantanti di maggior grido (ad es. Farinelli, che disse di aver cambiato il proprio stile di canto dopo la lezioncina del Padrone Cesàreo), componevano in proprio.

Le lettere del bolognese Luca Antonio Predieri, nonché la radicale svolta stilistica fra i lavori veneziani e romani di Antonio Caldara e la sua produzione al servizio viennese, testimoniano del gusto personale di Carlo VI, fautore del contrappuntismo severo e disposto a compensare di tasca propria la differenza salariale fra il Kapellmeister Johann Joseph Fux e il suo vice (appunto Caldara) in attesa che il posto di primo titolare si rendesse vacante per la morte dell’austriaco e il veneziano ne potesse raccogliere la successione ufficiale.

Nel loro patetico tentativo di tirare a indovinare, B&T ignorano che proprio la guerra di successione austriaca, apertasi nel 1740 con la morte di Carlo VI e conclusa col Trattato di Aquisgrana (1748), segnò un brusco allentamento del “primario interesse degli imperatori […] a controllare la produzione musicale”. La spending review operata da Maria Teresa e dal suo consorte Francesco Stefano ridusse da 130 a circa un ventina i membri stabili della cappella di corte, le retribuzioni subirono un taglio, al posto di primo Kapellmeister si avvicendarono un italiano verace come il citato Predieri, l’oriundo austro-napoletano Giuseppe Bonno, il boemo Gassmann, e infine – dal 1788 al 1824 – il troppo calunniato Salieri, ultimo italiano a ricoprire quel posto ormai non più tanto redditizio come un tempo. In parallelo all’affievolito ruolo della corte imperiale nell’indirizzo della vita musicale viennese, decollarono i concerti nei palazzi dell’alta nobiltà, le associazioni filarmoniche private, i teatri impresariali, l’industria editoriale impegnata a rifornire il dilettantismo alto e basso. Meno Corte e più Mercato, per condensare il processo in una formuletta comprensibile ai signori B&T.

Perché abbiamo insistito tanto stucchevolmente sull’origine nazionale di alcuni protagonisti della musica viennese nel corso di tre-quattro secoli? Perché l’anelito a far pulizia etnica è il grimaldello favorito dai Sondriesi per “decostruire” l’esistenza di un qualsivoglia ruolo di Vienna, in quanto capitale di un vasto impero multinazionale e metropoli dotata di risorse economiche considerevoli benché fluttuanti, nell’aggregare presenze musicali di alto livello da ogni parte del continente. Se si dà retta ai due maestri di confusione delle carte, di un fenomeno tanto ovvio la musicologia ufficiale (pangermanica, protonazista, filonazista e postnazista per peccato di origine) non si sarebbe accorta. Si leggano le loro liste leporelliane alle pp. 28, 29, 31; ponendo poi mente che nel loro entusiasmo nemmeno si accorgono di presentare due volte lo stesso compositore boemo: “Dussek” nella forma germanizzata e Václav Jan Dusík in quella ceca. A meno che nel primo caso non volessero parlare di František Xaver Dušek, grande amico di Mozart e non legato di parentela al precedente. La confusione era già diffusa all’epoca, ma con un buon dizionario musicale sotto mano B&T avrebbero potuto chiarirla a se stessi e ai lettori. Non importa: un boemo è un boemo, e per i Nostri tutti i boemi “non sono considerati dai tedeschi perché boemi; non si prendono in esame neppure i francesi perché francesi; non si valorizza Saint-George perché mulatto, non si dà importanza agli italiani perché italiani”. Ipsi dixerunt, ma è una balla spaziale. Basti guardare in che lingua sono scritte le prime biografie di tanti fra gli autori “valorizzati” da B&T in quanto non austriaci o non tedeschi di nascita.

Veniamo ora al sodo. Ciò che davvero interessa ai Nostri non sono né i boemi né i mulatti; bensì gli italiani. Interessano molto anche a noi, solo che per “valorizzarli” sarebbe utile qualche riferimento meno datato del pur benemerito pioniere Fausto Torrefranca. A p. 25 del Libro si trapianta senza commenti un suo catalogo di musicisti italiani attivi in Austria e in Boemia, “specialmente quelli di scuola veneziana, dalle decine dei più celebri, come Lotti, Caldara, Tartini, Durante, Bononcini, Traetta; alle centinaia di quelli famosi al tempo, che oggi sono ignorati, tra i quali Rutini, Ferradini, Bertoni, Perti”. Disponendo di strumenti meno rudimentali rispetto a quelli in uso nel 1930, era opportuno precisare che Durante (scuola napoletana) non si mosse mai da Napoli salvo che per un ipotetico soggiorno romano, che “Bononcini” va inteso come Giovanni junior (scuola modenese-bolognese, 1670-1747), che “Ferradini” (rectius: Ferrandini) fu attivo a Monaco di Baviera, non in Austria né in Boemia. E che ugualmente Bertoni si recò solo a Londra, che Rutini (fiorentino di formazione napoletana) girò mezza Europa fino a Pietroburgo ma dopo il 1760 gettò l’ancora in Italia. Forse un po’ presto per influenzare davvero la Wiener Klassik? Infine che Perti (scuola bolognese con ascendenze didattiche romane) non si mosse mai dal Bel Paese, pur intrattenendo con Vienna rapporti virtuali per mezzo di lettere, partiture e allievi.

E in fondo cosa conta Vienna nella storia della musica? Meno che niente. Eccovi le “prove” in termini di rigorosa purezza razziale. Citando Hermann Abert – autore peraltro assai indigesto ai Nostri perché serio e documentato eppure non sospettabile di filonazismo essendo defunto in tarda età nel 1927 – ecco la scoperta decisiva (B&T p. 19): “Wolfgang Amadeus Mozart era tanto poco un viennese autentico quanto lo furono Joseph Haydn e Ludwig van Beethoven, ai quali la storia della musica suole accostarlo nella triade dei classici viennesi”.

Qui si riscopre l’ombrello, signori miei. A Vienna, per secoli calamita di musicisti per le ragioni che B&T non sanno spiegarsi se non nei termini di un abbietto “opportunismo politico” degli Asburgo, quasi tutti i sommi maestri “viennesi” sono immigrati di prima generazione. Austriaci doc? Solo Schubert è un viennese di sobborgo, gli altri provengono dai quattro angoli dell’area germanofona vasta, ma a rigore non sono neppure austriaci. Ragionando con la geopolitica del tempo: Haydn viene da Rohrau – in quella Cisleithania che ospita tedeschi del Burgenland, ungheresi, boemi e varie minoranze slave – da famiglia di origini croate. Gluck nasce nel Palatinato bavarese; la sua “origine boema” (p. 32) è una mezza bufala. Studiò sì a Praga, ma in latino e in tedesco, solo perché in Boemia si era trasferito fanciullo al seguito del padre guardiacaccia; di ceco non sapeva una parola, tedeschi i genitori, lui stesso patriota tedesco ed anzi autodefinitosi “tartaruga tedesca” in polemica con certi razzistelli bolognesi dell’epoca (1763). Mozart è a duplice titolo un tedesco meridionale essendo nato a Salisburgo, allora parte della cosiddetta Baviera non elettorale dove il padre Leopold si era trasferito da Augusta in Franconia. Beethoven è un tedesco renano, fiammingo per parte di nonno. Brahms è un tedesco nordico venuto dalla protestante Amburgo. Mahler, figlio di un oste ebreo stanziato in Boemia, a Vienna resta un allogeno al quadrato anche dopo essersi fatto battezzare, dettaglio che la soave Alma gli rinfaccerà a giorni alterni. Come confesserà per iscritto a Janáček, non era in grado di capire il libretto di Jenůfa, sicché gliene domandò una traduzione in tedesco.

Ma chi sarebbe poi un “viennese autentico”? Nel 1856 la solerte anagrafe asburgica registra una situazione da vero melting pot: nella capitale dell’impero solo un 44 per cento dei 680mila residenti è tale per nascita. Oltre un quinto è originario di Boemia e Moravia; altrettanti i nuovi venuti dalle pianure dell’Austria inferiore e dall’area alpina (Austria superiore, Salzkammergut, Tirolo, Carinzia, Stiria e Kraina). Il resto spiccioli: slesiani, polacchi, ungheresi, slavi del sud, italiani.

Non paghi delle figuracce già rimediate, B&T rincarano la dose con eroico sprezzo dell’aritmetica (p. 27): “I maestri HMB [Haydn, Mozart, Beethoven, ndr] […] a Vienna non erano vissuti neppure così a lungo, né essi vi avevano lavorato a sufficienza […]. Mano al bignamino: Haydn vi si formò dal 1740 al 1756 circa e ci tornò regolarmente per trent’anni a lavorare nel palazzo d’inverno dei suoi principeschi padroni Eszterházy, iscrivendosi fra l’altro, in compagnia di Mozart padre e figlio, alla loggia massonica viennese Zur wahren Eintracht (1785). Dal 1790 fino alla morte (1809) vi risiedette come compositore indipendente facendone la base per le sue tournées londinesi.

Mozart ci visse e lavorò stabilmente dal 1780 al 1791; su una vita di 35 anni non pare pochissimo. Beethoven fece altrettanto dal 1792 al 1827, cioè dai 22 anni fino alla morte. Ci vergognamo a ripetere queste ovvietà, altri dovrebbe vergognarsi di più per il fatto d’ignorarle e/o di celarle ai suoi lettori.

Sullo stesso argomento molto si potrebbe aggiungere, ma crediamo di aver accennato quanto basta per scoprire quale tempra di storiografi si celi dietro le ambizioni revisionistiche della scuola sondriese.

La Wiener Klassik: un’invenzione nazista?

Terza puntata: Un concerto di tromboni

Stia in guardia il paziente lettore: in questa terza (e per ora penultima) puntata si parlerà di cose serie tipo filosofia, epistemologia, geopolitica. Chi volesse eroicamente procedere oltre lo faccia a suo rischio e pericolo; a chi invece si accontenta di un’onesta ricreazione consigliamo di saltare alla successiva, che intitoleremo, a Dio piacendo, “L’ora della Capra”. Rullo di grancassa (B&T, p. 29): “I musicologi non devono basarsi su giudizi personali per definire un autore romantico preromantico o classico. Se un autore è vissuto in un periodo storico, il suo linguaggio va collocato in quel contesto”.

Squillo di trombone con annessa tabellina crono-pitagorica (id&id, p. 34-35):  “La periodizzazione deve essere applicata, come alla letteratura, anche alla musica, senza però scomodare il ‘classicismo viennese’, etichetta di parte antistorica. Con tutti i limiti che può avere una schematizzazione, le espressioni letterarie, filosofiche, artistiche della cultura occidentale seguono una scansione temporale comune:

Barocco: fine 1500-tutto 1600.

Arcadia: fine 1600-inizi 1700.

Illuminismo: prima metà 1700.

Rococò: 1730-1760.

Neoclassicismo: seconda metà 1700.

Preromanticismo: seconda metà del 1700.

Sturm und Drang: 1765-1785.

Romanticismo: prima metà 1800.

Realismo: seconda metà 1800.

Naturalismo: fine 1800.

Verismo: fine 1800.

 

Per Beethoven, contemporaneo di quel pilastro dell’arte romantica tedesca che fu Caspar David Friedrich (1774-1840) si parlerà allo stesso modo di romanticismo e non di classicismo”.

Qui si manifestano i primi scricchiolii. Senza dire che ci piacerebbe tanto conoscere qualche esempio di filosofia rococò o di architettura Sturm und Drang, ci erudiscano i Maestri Venerabili all’Oriente di Fantasyland: quantò durò l’Arcadia? Un decennio, due, tre? Non si trovano forse larghe vene arcadiche (tematiche, stilistiche, linguistiche) nella lirica degli abati Metastasio e Parini? Giusto per limitarci a due dei maggiori italiani… Neoclassicismo e Preromanticismo occupano il medesimo slot temporale, dentro al quale ci balla comodamente anche lo Sturm und Drang. Dunque ad un compositore vissuto nella “seconda metà 1700” che etichetta stilistica “ deve essere applicata”? Brahms fu romantico o realista? Realista come Wagner? Cacciata dalla porta, la discrezione del musicologo torna dalla finestra. Un disastro soprattutto per quei musicisti che l’incomodo di una lunga vita portò a travalicare i limiti dei recinti storici eretti da B&T. I famosi tre periodi di Beethoven? Lo Stravinskij prima fauve, poi neoclassico ed infine neomedioevale e neobarocco? La prima e seconda “prattica” nei madrigali di Monteverdi? Di quest’ultimo non si salva nemmeno una singola collezione a stampa come la Messa e i Vespri del 1610: nella prima parte: polifonia “osservata” sui tenores di un mottetto di Gombert (ca. 1550-1556); nella seconda: una polifonia di “prima prattica” rigorosamente costruita sui cantus firmi gregoriani si alterna in continuazione a mottetti in stile concertante/solistico. Il tutto preceduto da una Toccata strumentale trapiantata dall’Orfeo. Un’opera teatrale profana, aiuto!

In siffatta visione, dove lettere, filosofie e arti volteggiano a passo sincronizzato come un corpo di ballo del Moulin Rouge, si ammira il trionfo di quelle fantasmagorie, tanto dogmatiche quanto inconclusive, che i signori B&T tentano di gabellare come pensiero solido. Loro non sono certo i primi a parlare di “periodizzazione”. La periodizzazione è il cuore del lavoro dello storico serio, che tuttavia ne riconosce senza illusioni il carattere pratico, operazionale e intercambiabile. “Les périodisations servent à rendre les faits pensables” (Krzysztof Pomian, L’Ordre du temps, Paris, Gallimard, 1984, p. 162). Già un padre della Weltgeschichte – tedesco ma forse non nazista perché nato nel 1795 – aveva decostruito nel 1854 il carattere irreale e mistico, se non mistificante, di un concetto di Zeitgeist che nella visione hegeliana tutto muoverebbe in sincronia al pari di un dio-orologiaio: “come se il progressivo sviluppo dei secoli abbracciasse a un medesimo tempo tutti i rami dell’umana scienza e conoscenza” (Leopold von Ranke, Über die Epochen der neueren Geschichte. Historisch-kritische Ausgabe, a cura di Th. Schieder & H. Berding, München-Wien, Oldenbourg, 1971: p. 57).

Gli fa eco un autore più moderno, l’olandese Johan Hendrik van der Pot, parlando di una “Periodenverschiedenheit der Kulturgebiete”. In spiccioli per chi non si diletta di scioglingua: più che a un rettifilo autostradale la storia della cultura parebbe assomigliare a una rete di mulattiere montane. Una legge nota agli economisti, quella dello “sviluppo combinato e diseguale”, è forse meno  applicabile alle arti? Asimmetria fra centri e periferie, fra classi sociali, nelle tecnologie, nei prodotti della cultura materiale (nell’Africa subsahariana si passa dal tam-tam al cellulare saltando la telefonia fissa, e dal catino di coccio direttamente a quello di plastica). In ultimo quella benedetta incognita di personalità e gusti individuali più propensi ad innovare piuttosto che a conservare… Se lo Zeitgeist è ineluttabile come il Fato, perché Mahler ci sembra più “romantico” di Fauré, che pure era nato 15 anni prima? Lo stesso per Debussy e Strauss, e per Rachmaninov/Schönberg, coetanei stretti.

Lo vedete, signori B&T, dove siete tornati a forza di rivoluzionare la storiografia? Alla Fenomenologia dello Spirito del professor Hegel; uno che vedeva nella monarchia assoluta prussiana l’inveramento supremo dello Spirito nella storia. Per voi uno strano compagno di letto. Se aveste voglia d’imparare finalmente il tedesco, quel barbaro dialetto che tanto vi stava sullo stomaco negli anni universitari (B&T p. 66, n. 176), potrei consigliarvi la lettura del citato van der Pot, un istruttivo campionario dei milletrè sistemi di periodizzazione escogitati dalle origini del mestiere di storico ai giorni nostri: Sinndeutung und Periodisierung der Geschichte: Eine systematische Übersicht der Theorien und Auffassungen, Brill, Leiden-Boston-Köln, 1999.

Ma adesso viene il bello: nuovo rullo di tamburo accompagnato da un “concerto di tromboni, di bombarde e di cannoni” con quel che segue (Da Ponte-Mozart, op. non cit.). A conclusione della loro titanica fatica metodologica, così tuonano B&T a p. 36: “Il tempo del Reich è passato da oltre settant’anni, pertanto non è più accettabile parlare di ‘classicismo viennese’”.

Oh bella questa! È un decretone o un decretino? Invece noi, con o senza licenza dei sullodati signori, continueremo a parlarne allegramente. E parlemo anche di classicismo berlinese (Spontini, Zelter, Mendelssohn, ecc.), di classicismo madrileno (Boccherini, Gaetano Brunetti, Padre Soler, ecc.) e magari di classicismo parigino (Gluck, Salieri, ancora Spontini, Cherubini, Gossec, Méhul, ecc.). Sempre per approssimazione, mentre se sragionassimo con le scombinate categorie bio-geo-politiche del Libro, dovremmo negare l’esistenza di centri urbani capaci, proprio come Vienna, di battezzare scuole, stili e pratiche musicali.

Un modesto esempio (sempre nel solco della reductio ad absurdum, a scanso che qualcuno del loro fan-club ci prenda sul serio): il Regno delle Due Sicilie ha cessato di esistere nel 1861, pertanto non è più accettabile parlare di scuola musicale napoletana per il palermitano Alessandro Scarlatti, il tarantino Paisiello, il barese Piccinni e tanti altri; per non dire di abusivi da sempre come il marchigiano Pergolesi, il ligure Anfossi, il fiorentino Rutini, l’amburghese Hasse. Il contrario sarebbe indice di nostalgie neoborboniche in odio all’Unità d’Italia.

Un secondo: la Repubblica di San Marco defunse nel 1797. Dunque, sotto pena di passare da barbari leghisti veneti, dalla scuola veneziana andranno radiati: il Monteverdi Claudio da Cremona, il bergamasco Legrenzi, il Bertoni da Salò, il Tartini Giuseppe da Piràn; quindi sloveno di famiglia fiorentina immigrato a Padova. Sissignore, nella ex Jugoslavia lo dicevano proprio “sloveno”; ne ho le prove. Sospettabile perfino Vivaldi, nato sì a Venezia, ma da padre bresciano e madre lucana. Un mezzo teròn; se andò a morire a Vienna doveva essere un precursore del nazismo, dunque ben gli sta.

E per finirla un terzo, stavolta interdisciplinare e ricavato da quella storia dell’arte di cui i due Sondriesi tengono cattedra in un istituto comprensivo della loro cittadina. Mestiere quanto mai onorato e luogo ridente che visitammo con piacere in anni lontani; sia detto senza traccia di sarcasmo. Come Lor Signori sanno, verso il 1925 si cominciò a parlare di “École de Paris” per indicare un’ampia costellazione di artisti astratti nati in maggioranza fuori dai confini dell’Esagono. Per citarne alcuni non fra i meno conosciuti (si ponga mente all’accento sempre tronco): de Chiricò, Modiglianì, Severinì, Picassò, Miró, Brancusì, Chagàll. Arrivati e partiti in anni diversi, a volte si frequentarono e a volte no, dipinsero e scolpirono in stili differenti. Il mito della École de Paris sarà certo una tarda invenzione del generale Charles de Gaulle, che dal 1944 al 1969 volle fortissimamente ricostruire, bomba atomica aiutando, la grrrandeur de la Frrrance così da cancellare l’occupazione nazista di Parigi e la vergogna di Vichy. Diciamo bene, Venerabili Maestri? Deh, illuminateci!

Quarta ed ultima puntata: l’Ora della Capra o l’Illustre Idiota

Hitsuji no koku: “l’ora della Capra” secondo il computo tradizionale giapponese;

dura dalle 13:00 alle 15:00 e precede quella del tramonto

 

Se oggi qualcuno definisse i professori Bianchini e Trombetta “due illustri idioti”, non avrebbero costoro una ragione di dolersi, e magari di querelare il loro zotico oppositore? Certamente sì, perché siamo nel 2017 e nella semantica dell’italiano corrente il sintagma si può solo interpretare come “notoriamente affetti da grave deficit intellettivo”. Se invece si volesse affermare che i suddetti Autori, al di fuori della loro professione di musicologi illustri, ignorano determinate branche dello scibile umano, non sarebbe che un’ovvia constatazione circa i limiti umani. Chi tra i viventi potrebbe chiamarsene fuori? Non certo il Gazzettante Carlo Vitali. Quanto poi all’individuare le discipline in cui si dispiega l’ignoranza (in senso tecnico, absit injuria verbo) dei signori B&T, l’onere della prova spetterebbe al proponente. È quanto ho cercato di fare nelle precedenti puntate limitandomi ai primi due capitoli del Libro, quelli di maggior impatto metodologico. In questa, meno sistematica e più giocosa, cercherò di offrire ai lettori e a me stesso un sollievo dal logorio cerebrale.

A proposito di tale incomodo affermano B&T (p. 400): “V’è il serio dubbio che Haydn abbia potuto comporre musiche così complesse incompatibili col suo stato fisico e mentale [si parla dei Quartetti op. 76-77, delle ultime sei Messe e degli Oratorii; mica uno scherzo, ndr]. […] “Dal 1799 Haydn soffrì per la vecchiaia, ma soprattutto per l’arteriosclerosi.” Segue un quadro sintomatologico e poi la dotta conclusione: “Probabile che la cerebrosclerosi abbia contribuito a far dire a Giuseppe Carpani, avendolo conosciuto nel 1796, che Haydn, al di fuori della musica, era un ‘illustre idiota’”. La terminologia medica – sostiene la mia neurologa di fiducia – è alquanto zoppa, perché semmai si dovrebbe parlare di “vasculopatia cerebrale aterosclerotica” (sic). Ma transeat; a differenza di B&T, noi ci proclamiamo ignoranti di medicina e non azzardiamo diagnosi. Quanto sappiamo per certo è che B&T sono ignoranti di linguistica storica e che la loro citazione a pié di pagina dalle Haydine di Carpani è ripresa paro paro da quella di Giorgio Taboga in una sua ringhiosa stroncatura del 2004 al Beethoven di Piero Buscaroli, apparsa nel n. 8 della rivista “Episteme”: “la denuncia dell’incapacità didattica dell’ “illustre idiota” Haydn (come lo definì Giuseppe Carpani, Le Haydine, Padova, 1823, p. 252) è precisa ed impietosa”.

Bene: Taboga senior e i suoi illustri discepoli hanno semplicemente travisato la citazione ai loro fini revisionistici. Infatti Carpani, amico personale e collaboratore letterario di Haydn, così si esprime nel passo riscontrabile alle pp. 251-2 della seconda edizione accresciuta (Padova, Tip. Della Minerva, 1823), identico alla p. 247 della princeps (Milano, Buccinelli, 1812): “Diceva il gran Federico [II, re di Prussia, ndr], che non aveva mai potuto indovinare i progetti del Laudon. Sfido chi, sentite due battute di Haydn, possa predire le due che verranno. Nulla poi dico dell’intero piano dì un componimento nell’uno, d’una spedizione nell’altro. Era Haydn tutto musica, Laudon tutto guerra. Ignoranti nel rimanente dello scibile, si sarebbe potuto, senza nulla detrarre alla loro vera gloria, chiamarli, fuori dell’arte che professarono, due illustri idioti”.

Siamo di fronte a un parallelo in stile plutarcheo fra Haydn e il brillante feldmaresciallo austriaco Ernst Gideon von Laudon (1717-1790). Ricondotto al suo vero contesto, l’apparente insulto si sgonfia; anzi scompare del tutto quando si verifica l’accezione storica del lemma “idiota” nel Vocabolario della Crusca (4a ediz., 1729-1738): “Ignorante, Non letterato. Lat. idiota, illiteratus. Gr. idiotes”. Controprova offerta dallo stesso Carpani (2a ediz. cit., pp. 9-10, nota a): “Allorché io dettava queste lettere non era ancor us[ci]to al mondo musicale il maestro Rossini […]. Questo mostro d’ingegno […] trovò nuove delizie per l’orecchio, con sorpresa universale de’ dotti e degl’idioti”. Chiaro che qui l’idiozia non è una condizione mentale – vuoi congenita, vuoi indotta da patologie degenerative senili – bensì un’ignoranza settoriale; musicale nel caso specifico. Le ipotesi riattributive dei nostri musicologi revisionisti (seriamente dubbioso… anzi probabile… praticamente certo) si basano su una testimonianza mutilata e male interpretata per ignoranza; se colposa o dolosa lasciamo valutare al lettore.

 

Altro esempio di onestà nello sfruttamento delle fonti (B&T, p. 22): “Il compositore di Rovereto Giacomo Gottiferedo (sic, recte Gotifredo) Ferrari, estensore tirolese delle seguenti note, scrisse delle aberrazioni su Paisiello piegando la storia a fini di propaganda” (segue una lunga citazione). Le aberrazioni consisterebbero nel fatto che Paisiello avrebbe consigliato a un dilettante romano, tale Gasparino, di prendere lezione da Mozart “come un giovane d’un talento trascendente e straordinario”. Sulla stima reciproca fra Paisiello e Mozart, basata anche su contatti personali, è sufficiente consultare – oltre all’epistolario mozartiano e ai Dokumente di Otto Eric Deutsch (ad annos 1770, 1773, 1784, 1787) – la recente biografia di Dino Foresio, Il migrante dorato: Giovanni Paisiello (1740 – 1816), Bologna, Bongiovanni, 2016. Ma per B&T il peccato originale di Ferrari e la causa delle sue aberrazioni starebbe, more solito, nella sua nascita tirolese, così esplicitata nella nota 46, ivi: “Dal 1815 Rovereto divenne parte della contea austro-ungarica del Tirolo, e fu, fino alla 1918, capoluogo di uno dei sette circoli di quella provincia”. Primo sfondone: dal 1509, quando Massimiliano I la sottrasse a Venezia con la battaglia di Agnadello, Rovereto fece sempre parte del Tirolo italiano (così definito in opposizione a quello tedesco). Il titolo ufficiale era “Welsche Confinen der Grafschaft Tirol”, confini italiani della contea del Tirolo. Nel 1784, appena presentatosi come allievo a Giovanni Paisiello per imparare a comporre opera italiana, Ferrari ebbe con lui un gustoso dialogo di cui citiamo qui le prime battute:

– “Dunque, caro il mio Tirolese.

– Signore, io sono italiano.

– È vero, scusami, abbi pazienza. Dunque caro mio, tu sei deciso a divenir compositore ?

– Volesse il cielo !

Va buono, va buono: lascia fare a me”. (a p. 109 di Aneddoti piacevoli e interessanti, occorsi nella vita di Giacomo Gotifredo Ferrari da Roveredo, Londra, presso l’Autore, 1830; un libro che offre più di quanto prometta l’umile titolo).

In seguito, date le proprie molteplici occupazioni teatrali, Paisiello si fece affiancare nel compito dall’anziano Gaetano Latilla (1711-1788), famoso operista nonché zio e primo insegnante di Piccinni; ed ecco un altro dialoghetto partenopeo che certo, diranno B&T, Ferrari si sarà inventato a fini di propaganda austriacante:

“Partì poi Attwood [Thomas Attwood, allievo di Latilla dal 1783 al 1785, poi di Mozart fino al 1787, ndr] per Vienna onde finire i suoi studij sotto W. A. Mozart. Arrivò il mio amico in quella metropoli al momento che quell’egregio compositore avea dato alla luce i suoi sei quartetti dedicati a Hayden [sic], e me ne inviò in regalo una copia a Napoli […]. Li provai con dilettanti e professori, ma non potevamo eseguire che i movimenti lenti, ed anche quelli malamente; ne misi in partitura degli squarci, tragli altri la fuga in G [sol maggiore], del primo quartetto [Kv 387]: la mostrai a Latilla, ed egli, dopo aver esaminata la prima parte, mi disse ch’era una gran bella cosa: scrutinando poscia nelle modulazioni e combinazioni ingegnose della seconda parte, e arrivato alla ripresa del soggetto, ripose la mia copia sulla tavola, esclamando, tutto stupefatto:

chisto è lo piezzo de museca più bello, e più spanto [grandioso, ndr], ch’aggio visto da che so vivo!

– Non credete che sia troppo ingenuo per una fuga reale?

Chesto è lo meglio; è no zucchero! Chesta è na fuga riale, non scolastica e nova” (Ferrari, op. cit., pp. 145-6).

Si aggiunga che Ferrari, abbandonata con rimpianto l’adorata Napoli nel 1787, continuò la sua carriera lungo un tipico itinerario da emigrato musicale italiano, come ad esempio Viotti: prima a Parigi e poi a Londra, dove morì nel 1842. Però – anatema su di lui! – si permise nelle sue memorie di “difendere la lingua tedesca, dolce ed espressiva” (B&T, loc. cit.). Subito dopo aver smascherato il suo tradimento etnico, i nostri patrioti si dedicano a riscrivere in chiave risorgimentale la storia del melodramma italiano da Cimarosa a Bellini e da Donizetti a Verdi, giacché: “Non per nulla le Società carbonare italiane […] nacquero presso i teatri e i Conservatori di musica. Era là che si cercava eroicamente di salvaguardare la cultura italiana dai soprusi degli Asburgo e dei Borbone”. Confesso la mia colpa: di questa materia mi sono occupato un poco, non senza genuina passione nazionale, nel volume “O mia Patria”: Storia musicale del Risorgimento, tra inni, eroi e melodrammi di Giovanni Gavazzeni, Armando Torno e Carlo Vitali, con una prefazione di Philip Gossett, Milano, Dalai, 2012. Un po’ per pigrizia e un po’ per mancanza di spazio, qui mi contenterò di affermare che la ricostruzione di B&T è pesantemente viziata da gossip biografico senza fondamento, goffe semplificazioni uso fumetto per l’infanzia e ridicolaggini assortite. Se i due se ne risentono, si comprino il volume e ne scrivano una recensione sulle loro milletré pagine web. Bastino qui due campioni: “Giovanni Paisiello […], per non finire ammazzato, fu costretto a scrivere l’inno al Re che poi diventerà inno nazionale del Regno delle Due Sicilie e terminò i suoi giorni in disgrazia perché inviso agli austriaci. Gioachino Rossini […] smise ‘inspiegabilmente’ di comporre opere dopo un Guglielmo Tell politico e rivoluzionario.”

Circa Paisiello, genio musicale di prim’ordine, si dovrebbe ricordare che il suo “spesso mutar di bandiera” (Francesco Florimo, La scuola musicale di Napoli e i suoi conservatorii, Napoli, Morano, 1880-83: vol. II p. 276) lo rende poco credibile nel ruolo di martire del pre-Risorgimento. La sua morte non fu quella di un dissidente, bensì di un cortigiano addolorato da un pubblico sgarbo del suo sovrano: quel Ferdinando I delle Due Sicilie il quale gli aveva commissionato il famoso inno in tempi non sospetti, quando era ancora Ferdinando IV di Napoli. Cioè nel 1787, allorché Paisiello sommava le cariche di “maestro della Real camera” e “compositore della musica de’ drammi” con annuo appannaggio di 1.440 ducati. Se davvero fu “costretto” a scrivere quelle quattro note, non lo fece col coltello alla gola; semmai con catene d’oro legate al piede.

Rossini: il suo precoce silenzio è stato spiegato in molti modi; ma questo “inspiegabilmente” di B&T è un’affascinante insinuazione da giallisti consumati. Temeva forse che i servizi segreti austriaci lo facessero assassinare a Parigi in rappresaglia di aver musicato nel 1829 (in francese) un’opera sull’eroe nazionale svizzero? Manco per idea. Lo stesso Gran Cancelliere Metternich era un rossiniano accanito e amico personale del Cigno di Pesaro. Un’infatuazione che in lui durò per quattro decenni, ben oltre la perdita del potere dopo la rivoluzione del ‘48, esprimendosi in accorate suppliche epistolari onde spingerlo a una rentrée; omettiamo per brevità la torrentizia bibliografia ma siamo pronti a fornirla su richiesta. Ed ecco i precedenti: “Che bell’episodio della mia vita l’aver stabilito qui [a Vienna, ndr] l’opera italiana; alla fine ci sono riuscito, conquistando una vera e grande vittoria”, scrisse nel suo diario l’8 aprile 1822. Singolare inno di trionfo per un politico che dirigeva a bacchetta il concerto delle nazioni… Proprio quel Metternich che definiva l’Italia “un’espressione geografica”, eppure amava il Bel Paese al punto da volerne il più possibile per il suo imperatore, musica inclusa.

Già in visita di Stato a Napoli nella primavera del 1819, si deliziava ad ascoltare ogni sera il tenore Giovanni David, stella del San Carlo. Il teatro era chiuso per la novena di San Gennaro, ma per concessione di re Ferdinando a lui fu permesso di assistere alle prove di alcune opere rossiniane; pare addirittura otto, secondo quanto scrisse alla sua storica amante, la contessa Dorothea von Lieven. Più o meno alla stessa epoca si era espresso ben altrimenti a proposito dei “nostri disgraziati compositori, soprattutto Beethoven e la sua esecrabile scuola”. “E-se-cra-bi-le”: prendere nota, signori revisionisti! Difatti alla sua lauta tavola viennese sedettero ospiti Rossini e Donizetti (dal 1842 Kammerkapellmeister e Hofkomponist dei biechi Asburgo), più schiere di virtuosi italiani che varcavano il Brennero inseguendo la musica dei fiorini, mentre a Beethoven rifiutò di concedere una pensione perché certo l’avrebbe sperperata. È lo stesso impietosito Rossini a raccontarlo. Per David, riascoltato a Vienna nel 1822, ebbe un vero debole. Dopo averne analizzato con proprietà di termini il colore, l’estensione e la tecnica, lo statista-vociologo conclude: “non lascia nulla a desiderare; e ci sono poche cose al mondo su cui posso azzardarmi a pronunciare un tale giudizio”.

Se poi il canto esce da una bella gola femminile, è colpo di fulmine. Nel 1818-19 la celebre Angelica Catalani si esibisce in concerto al Theater an der Wien. Metternich se n’era invaghito a Firenze nel 1817, quando la trentasettenne soprano aveva già abbandonato le scene ma ancora sapeva stregare le platee con funamboliche variazioni di bravura che lei stessa inventava e dava da strumentare a compositori di fiducia. Il solito roveretano Ferrari, che in tale qualità la servì a Londra verso il 1808, la dice “dotata d’un fisico leggiadro e maestoso, vita snella, fisionomia seducente”. Non occorreva altro per smuovere il sensibile principe, di cui possediamo un’altra confidenza alla contessa von Lieven: “Nulla opera in me con tanta forza come la musica. Credo che questa, dopo l’amore e specie in unione con esso, migliori il mondo”. Al congresso di Verona, convocato nell’autunno 1822 per pacificare l’Europa con le baionette della Santa Alleanza, si unirono a far festa tutti assieme: Metternich, Dorothea, Angelica e Rossini, incaricato di musicare le quattro cantate d’occasione.

Con questo capolavoro d’ignoranza storico-politica – che in B&T si sposa a quella geografica, come quando etichettano Dresda “maggiore centro d’italianità della Germania meridionale” (p. 23); ma ce l’hanno in casa un atlante? – passiamo il testimone a chi avesse ancora voglia di analizzare il Libro nei suoi residui 29 capitoli. Per qualche tempo vorremmo occuparci di cose più serie; poi si vedrà, perché il materiale nel cassetto è tantissimo e già si annuncia l’uscita del Libro II. Intanto salutiamo con gratitudine i nostri pazienti e meno pazienti lettori su questo sito ospitale; ai due Accademici della Bufala dirigiamo un affettuoso congedo animalista che – in quanto “nuovi Sgarbi della musicologia”, titolo conferito sul campo dal loro fan-club – dovrebbero apprezzare: “Capre! Capre! Capre!”.

Fine (per ora…)

 

(originariamente pubblicato sul forum di musica-classica.it, thread: Sondriaggi)

Data di pubblicazione: 28 Aprile 2017

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