Tra sinfonica e metal: i Rhapsody of Fire con la Sinfonica di Milano.

In un libro della fine del secolo scorso, il musicologo britannico Nicholas Cook (Musica. Una breve introduzione, 1998) sottolineò opportunamente che la letteratura critica sulla popular music e in particolare sulla musica metal (sempre che di “popular music” debba parlarsi in quest’ultimo caso, ma mettiamo da parte la questione, almeno per il momento) si concentra «sulle qualità viscerali e contro-culturali, minimizzando i debiti nei confronti della tradizione d’arte classica (chitarristi heavy metal come Eddie Van Halen e Randy Rhoads sono stati fortemente influenzati da autori barocchi come Vivaldi o Johann Sebastian Bach, e simili influenze si trovano già, quantomeno, nei Deep Purple e in Emerson Lake & Palmer, per non parlare di A Winter Shade of Pale dei Procol Harum».

C’è da essere d’accordo con Cook. Ciò che tentiamo di fare in questa sede è, pertanto, occuparci degli aspetti più strettamente musicali, e culturali, in maniera tale da tentare di indicarne trame e significati, momenti di particolare interesse ed eventuali punti di contatto: se vi è un dichiarato intento da parte di chi scrive è quello, tra l’altro, di mostrare la persistente, naturale contiguità tra contesti musicali che potranno sembrare distanti ma che in realtà sono in qualche maniera persino connaturati. Da svariati decenni autori quali il chitarrista svedese Yngwie Malmsteen, il tastierista (anch’egli svedese) Jens Johansson, figlio di un noto jazzista sfortunatamente morto in giovane età, i tedeschi Haggard o la famosa band italiana dei Rhapsody of Fire, rappresentano alcune tra le manifestazioni più evidenti della naturale contiguità a cui si è appena fatto riferimento, ciascuno secondo criteri propri. Ma i Rhapsody of Fire non sono una “semplice” band metal neoclassica, o neo barocca che dir si voglia: sono da considerarsi i veri capostipiti del metal sinfonico. Recentemente la band triestina è stata protagonista, insieme all’Orchestra Sinfonica di Milano, di un doppio appuntamento al milanese auditorium di largo Mahler, precisamente il 26 ed il 27 aprile scorsi. Ne abbiamo parlato con Alex Staropoli, tra i fondatori dei Rhapsody of Fire negli anni Novanta, compositore e tastierista della band, e con Vito Lo Re, direttore d’orchestra in sella alla compagine orchestrale milanese, da tempo collaboratore del gruppo e, come si dirà, musicista con ampia esperienza anche fuori da un contesto musicale di tradizione eurocolta.

Partirei dalle vostre impressioni generali sul progetto che si è appena concluso. Com’è stato, dal punto di vista di entrambi, approcciarsi a un lavoro del genere, ossia realizzare una collaborazione tra una band metal in formazione canonica (voce, chitarra, tastiere, basso e batteria) e un’orchestra e coro?

Alex Staropoli. A partire dagli esordi, i Rhapsody of Fire non volevano essere una “semplice” o per così dire una “tipica” metal band: abbiamo sempre considerato di non voler soltanto “fare del metal” ma qualcosa di più, per cui già nei primi anni della nostra attività compositiva c’era un occhio di riguardo molto specifico ai particolari arrangiamenti che avevamo in mente. Naturalmente i primi album (Legendary Tales, Symphony of the Enchanted Lands) erano in tal senso più semplici di quelli che sono venuti dopo, nei quali siamo giunti a concepire delle composizioni che in certi casi non prevedevano nemmeno l’impiego della batteria, della chitarra elettrica eccetera (penso ad esempio a certe parti introduttive). In tal senso la peculiarità dei Rhapsody of Fire è questa: il fatto di non essere una band a cui sia stata “forzata” un’orchestra, bensì l’orchestra è qualcosa di previsto, in quanto elemento connaturato alla nostra musica. Voglio aggiungere che abbiamo all’attivo diverse collaborazioni in studio con compagini di questo tipo, anche se si è trattato della prima volta in sede di concerto.

Peraltro lei era impegnato anche in veste di produttore.

A.S. Questi due concerti non sono stati soltanto due concerti, ma anche due opportunità che hanno consentito di poter registrare il tutto, in audio e video. Per cui per me personalmente, come produttore, questo è quasi più importante dello stesso show. Certo, tutto ciò ha avuto un costo rilevante, anche perché ho dovuto gestire molte cose e rivolgermi a vari soggetti (che reputo assai capaci), tra cui il nostro primo tecnico del suono, un professionista che ha lavorato con band molto importanti e per progetti rock altrettanto rilevanti. Ho poi ingaggiato il service adatto e mi sono occupato di un’infinità di altre cose. Insomma ho cercato di assicurarmi che tutto funzionasse nel modo migliore possibile e devo dire che alla fine il risultato è stato ottimo.

Vito Lo Re. Desidero per prima cosa specificare che, ancor prima di essere un collaboratore dei Rhapsody of Fire, sono un loro fan da tantissimi anni. Successivamente abbiamo realizzato insieme tre album in studio, con orchestra da me diretta, quindi è davvero da parecchio tempo che lavoriamo insieme, per cui quando si è presentata l’occasione del doppio concerto dello scorso aprile è sembrato del tutto naturale proseguire il nostro sodalizio. È stata un’esperienza bellissima e devo dire che una cosa che mi è piaciuta in modo particolare è che tanto i sessantacinque orchestrali che i venti coristi presenti sul palco si sono divertiti moltissimo. In ogni caso mi lasci dire che si è trattato davvero di un lungo lavoro.

Un lavoro sul quale a breve diremo alcune cose più in dettaglio. Ma prima vorrei chiederle, maestro Lo Re, qualcosa circa la sua formazione, che è una formazione tradizionale, classica, ma in cui ha voluto affrontare anche altri sentieri musicali.

V.L.R. Come lei ha ricordato ho ricevuto una formazione classica e per tanti anni ho fatto il direttore d’orchestra in campo sinfonico e operistico. Ma sin dagli anni del conservatorio ho avuto occasione di collaborare in situazioni piuttosto diverse (che peraltro ai tempi non erano viste benissimo!): in veste di direttore d’orchestra ho operato in ambito folk ma anche rock, passando per la bossa nova e altri generi, senza contare le numerose collaborazioni televisive. In tutti questi casi si poteva effettivamente parlare di contaminazioni musicali tra generi e mondi sonori differenti. Ma, come in qualche modo diceva Alex, nel caso della musica dei Rhapsody le cose sono un po’ diverse, nel senso che la loro musica è già concepita in questo modo, cioè nasce già come musica sinfonica e quindi orchestrale. Dunque nel caso del concerto tenutosi all’auditorium milanese non si è trattato (come mi è capitato in altri contesti) di dover orchestrare dei brani da zero. Peraltro non era scontato che l’orchestra (e questo a prescindere dal fatto che si trattasse – come nel caso dell’OSM – di un’ottima orchestra) reagisse bene, non tanto per ciò che può attenere al puro gusto musicale ma per ragioni più tecniche: suonare in cuffia, in elettrico eccetera è cosa diversa rispetto a suonare in maniera tradizionale; pertanto una risposta così entusiastica da parte dei coristi e degli orchestrali non era scontata. La cosa complicata consisteva poi nel fatto di non disporre di una totale libertà ma di dover seguire quelle che erano le orchestrazioni originali. Ho fatto, si, alcune aggiunte, integrazioni eccetera, ma rimanendo sempre fedele all’impianto di partenza, anche perché stravolgere le orchestrazioni originali non avrebbe avuto alcun senso, naturalmente.

Vuole dirci qualcos’altro sul lavoro svolto insieme all’orchestra? Ci sono state criticità di natura meramente musicale?

V.L.R. Musicalmente non c’è stato alcun problema. I musicisti erano di profilo talmente elevato che le poche prove fatte sono state sufficienti per poterci intendere subito, quindi non si è verificato alcun problema di natura meramente musicale. Il problema è stato, semmai, in fase di orchestrazione, perché in realtà il modo di comportarci in sede di registrazione non sarebbe possibile dal vivo. Dal vivo tutto è più complicato, quindi la cosa più difficile è stata, fra i musicisti e soprattutto fra gli ottoni (nel nostro caso quattro corni, quattro trombe e quattro tromboni) assegnare le parti in maniera che il tutto fosse eseguibile; anche con i musicisti ottimi di cui disponevamo sarebbe stato molto difficile. Quindi ho dovuto ripartire un po’ il tutto tra i musicisti delle stesse sezioni: per esempio la parte del secondo corno era uguale al primo, semplicemente suonavano in momenti diversi in modo da potersi alternare e poter appunto avere il tempo di prendere fiato. E i musicisti hanno reagito molto bene a questo principio.

Com’è avvenuto il confronto fra voi? Come avete lavorato, se si può riassumere in qualche parola?

A.S. Io ho piena fiducia in Vito e non mi sono nemmeno posto il problema per quanto riguarda gli arrangiamenti. C’è talmente tanto materiale nei vari file di ogni brano, che ho rimesso assieme da zero, che ha previsto un lavoro preparativo di mesi per dare qualcosa di ben composto a Vito, al quale ho semplicemente detto “fai tu”. Ci sono stati dei confronti più che altro per capire come gestire alcune parti, ma nulla di più.

V.L.R. Alex ha avuto una grandissima mole di lavoro da gestire e inoltre ha dovuto interfacciarsi con tantissime persone. Dal canto mio ho cercato di gestire e risolvere tutte le problematiche che potevano o sarebbero potute sorgere. Devo dire che ho avuto molta libertà, ovviamente tenendo conto del materiale musicale di cui disponevo, al limite modificando alcune cose. Ci siamo confrontati, cercando ad esempio di capire se dare più spazio a un certo elemento, a quest’altro eccetera, ma ho avuto sostanzialmente carta bianca. Tutto questo va detto tenendo comunque conto che si è trattato di un anno di lavoro, anche perché parliamo di due concerti da oltre novanta minuti (due ore, considerando le due set list differenti).

Ad Alex Staropoli sarà capitato tantissime volte di dover ripercorrere il proprio percorso (anche se forse meno in una rivista musicale come la nostra): ci racconta quali sono state le sue influenze e più in generale il percorso che l’ha condotta a un sound così particolare e al vostro stile così riconoscibile?

A.S. Ho ricevuto una formazione classica, affrontando dunque lo studio del pianoforte. L’idea di formare una band si delineò in giovanissima età. Come gruppo partimmo ispirandoci certamente ad alcune band metal e a qualche chitarrista neoclassico, ma devo dire che mio fratello Manuel, che quando iniziammo aveva soltanto dodici anni e già teneva concerti (vedi intervista a Manuel Staropoli su questo sito del 3 ottobre 2023), svolse un ruolo importante. Manuel ci aveva fornito delle cassette di musica barocca e rinascimentale facendoci scoprire molta musica che volemmo metabolizzare e in qualche maniera includere nella nostra. Tutto ciò ha rappresentato sicuramente un input importante. Furono anni in cui ascoltammo e assorbimmo tantissima musica, compresa molta musica da film. Quello che desideravamo fare era riuscire a coniugare tutte queste suggestioni e questi mondi musicali senza risultare pacchiani, avendo sempre una base ritmica tradizionale, quindi una band che riuscisse a integrare il metal con la musica classica e con tutto quello che ci piaceva. Ci fu poi la collaborazione con il celebre attore Christopher Lee, con il quale abbiamo generato tantissimi narrati (con lui e con altri attori, a Londra) registrando due dischi con l’orchestra. In quel momento per la prima volta prese forma il tipo di sonorità che davvero avevamo in mente. Quello è stato il momento in cui fummo descritti “un film per le vostre orecchie”. E così pian piano siamo cresciuti molto. È stato un percorso decisamente molto lungo.

V.L.R. Ci tengo a dire che prima di conoscere i Rhapsody, essendo un fan dell’heavy metal sin da quando avevo quindici anni, nella mia testa c’era sempre l’idea di una commistione, del gusto di “mescolare” i vari elementi, tant’è vero che quando ascoltai per la prima volta la band dissi a me stesso che se avessi un gruppo metal farei esattamente questo. Con la differenza che nessuno l’aveva pensato e invece loro l’avevano fatto!

Anche perché all’epoca credo che nessuno facesse musica di questo tipo!

V.L.R. I Rhapsody of Fire sono stati certamente dei precursori. E se oggi esiste il genere chiamato symphonic metal lo si deve a loro. Tutti gli altri sono venuti dopo.

A.S. A noi piacevano i vari Malmsteen, i Manowar, i Blind Guardian, gli Halloween e altri, queste erano le band di riferimento e l’obiettivo era arrivare a quel livello. C’eravamo detti, perché non provarci?

Mi pare che l’importanza del doppio concerto milanese del 26 e 27 aprile scorso (e di progetti analoghi) consista anche nel fatto che abbia potuto riscuotere un interesse trasversale, addirittura far avvicinare maggiormente l’appassionato di metal e hard rock alla musica classica e, viceversa, il melomane o l’appassionato della musica di Bach o Schubert ai Rhapsody, agli Epica, ai Symphony X eccetera. Voi cosa ne pensate?

V.L.R. Io ho un canale YouTube (Vito Lo Re appunto) in cui parlo di musica, in particolare di musica classica ma non solo. Posso dire di conoscere bene quelli che chiamo i talebani della classica, ossia coloro per i quali non v’è altro orizzonte che la “loro” musica. Queste persone non le smuoverai mai. Però credo anch’io che questo genere di progetti possa andare nella direzione che lei diceva. Un mio amico, amante della musica classica ma che non aveva esperienza di musica metal sinfonica e di musica metal in generale, è venuto ad assistere al concerto ed è rimasto assolutamente entusiasta. Ben vengano questi contatti. In fondo esistono due tipi di musica: quella che ti comunica qualcosa e quella che non ti comunica nulla, il che è soggettivo naturalmente.

A.S. Concordo con quanto detto da Vito ed è davvero bello vedere come i vari mondi musicali si incontrino, si accomunino e si rispettino. Per la realizzazione dei nostri dischi abbiamo sempre voluto invitare non solo degli ensemble, ma anche dei solisti provenienti dal mondo della musica classica, i quali ogni volta ci hanno dato dei riscontri positivi. In passato invitammo a collaborare la cantante americana Bridget Fogle, che ha una formazione classica e soprattutto è una grande cantante con un range vocale incredibile. Anche lei, come altri musicisti con cui abbiamo collaborato, ha trovato un vivace punto di contatto e apprezzato molto la nostra musica, ed è per noi un risultato davvero soddisfacente, così come soddisfacente è stato il fatto di poter realizzare un progetto così importante l’aprile scorso.

Marco Testa

Rhapsody of Fire e Orchestra Sinfonica di Milano, direttore Vito Lo Re

Milano, Auditorium Fondazione Cariplo, 26 aprile 2025

Il racconto del concerto dei Rhapsody of Fire con l’Orchestra Sinfonica di Milano

Quello che abbiamo ascoltato all’Auditorium Cariplo di Milano non è certo frequente (e lo è forse ancor meno per i lettori di MUSICA). Sia chiaro, non è la prima volta che una band di musica metal, hard rock e compagnia cantante dà il via a un sodalizio con una compagine orchestrale, l’Orchestra Sinfonica di Milano in questo caso, che i milanesi ancora conoscono come “la Verdi”. Il chitarrista svedese Yngwie Malmsteen, tra i primi a fondere il metal con lo stile neoclassico e neobarocco, lo ha fatto tanti anni or sono, precisamente con l’Orchestra Filarmonica del Giappone; i Deep Purple, anch’essi ispirati a motivi e stili improntati alla musica classica (lo sanno bene gli estimatori del chitarrista Blackmore e del tastierista Lord), lo fecero negli anni Sessanta; lo ha fatto Steve Vai, celebre guitar hero venuto alla ribalta all’epoca della giovanile collaborazione con Frank Zappa; lo hanno fatto altri gruppi di grande valore, quali ad esempio i Dream Theater; dal canto loro, i tedeschi Haggard scrivono musica metal sinfonica senza alcuna necessità di collaborare con un’orchestra per la semplice ragione che essi stessi formano una piccola orchestra di venti elementi (voci, batteria, tastiere, basso e chitarra elettrica ovviamente inclusi), rigorosamente accordati a 415, ligi ai giusti respiri, ritenuti, rubati, insomma a tutti i principi dell’agogica e via dicendo, in ultima analisi comportandosi come fossero un vero ensemble barocco. Per i triestini Rhapsody of Fire, vere e proprie autorità internazionali nel loro genere, si è trattata della prima collaborazione con una grande orchestra in sede concertistica, benché sin dalla loro fondazione negli anni Novanta abbiano coinvolto nei loro progetti dei piccoli ensemble barocchi e successivamente abbiano registrato diversi album avvalendosi di compagini orchestrali (ma appunto in studio e mai dal vivo prima di questo momento) e benché la loro musica sia naturalmente votata a incontrare gli strumenti d’orchestra in ragione di un sinfonismo che è un po’ la cifra costitutiva del modo di fare musica di Alex Staropoli e degli altri membri del gruppo. Un modo di fare musica che riunisce la tradizione classica e barocca e quella delle tradizioni popolari europee, lo stile operistico sino ad ambienti mitteleuropei tardo-romantici e persino (e anzi in modo assai caratterizzante) alla musica da film: in tal senso è spesso presente il riferimento alalle ambientazioni sonore tipiche de Il signore degli anelli, come ben sanno i fans della band. Pertanto la collaborazione con la band dell’attore che il gruppo mise in piedi con il celeberrimo attore Christopher Lee (1922-2015) apparve a suo tempo del tutto logica, anzi naturale approdo delle aspirazioni della band e dell’identità musicale che ha saputo darsi in tanti anni di attività. Non saranno in pochi a ricordare che nella saga tolkeniana diretta da Peter Jackson fu proprio Lee a vestire i panni di uno dei personaggi forse meglio connotati della trilogia tolkeniana, lo stregone bianco Saruman. Sicché quando i membri del gruppo triestino ebbero l’opportunità di collaborare con l’attore britannico per la realizzazione di alcuni dischi, avvalendosi della sua voce in qualità tanto di narratore che di cantante, fu per loro, come dichiarato in occasione di un’intervista di circa vent’anni or sono, la realizzazione di un sogno.

La sala era gremita a dir poco. L’educatissimo pubblico metallaro, composto da persone di tutte ma proprio tutte le età, fremeva in attesa del concerto, relativamente al quale ci sembra opportuno dire qualcosa almeno nelle linee essenziali, toccando rapidamente quantomeno alcuni aspetti che mi sembrano di rilievo. Intanto cosa possiamo dire del connubio tra band e orchestra? Il sound è stato convincente? Il risultato musicale è stato per così dire univoco e coerente tra le varie parti? A me, lo dico subito – nonostante qualche difettuccio prettamente acustico della sala, quantomeno dalla mia postazione – pare proprio di sì. Non mi riferisco tanto alla compatibilità in sé tra strumenti elettrici, batteria e orchestra, dal momento che questi sono diventati una presenza assolutamente consueta e accettata, come del resto è ben noto, nella musica del Novecento e più in generale nel repertorio contemporaneo; mi riferisco alla compatibilità “di genere”, o meglio, se vogliamo, a un piano estetico: anche qui la risposta mi pare non possa essere che affermativa, in ragione della naturale comunicabilità (detto in sintesi estrema) tra la musica del Rhapsody of Fire e il repertorio che normalmente viene affrontato dall’orchestra. Tutto ciò vale anche per il coro, tra le cui fila militavano peraltro dei veri e propri fans degli stessi Rhapsody, ed è stato davvero gradevole vedere alcuni coristi vistosamente divertiti e coinvolti a tal punto. Mi pare che la compagine guidata da Vito Lo Re sia stata capacissima di armonizzarsi con il suono della band, il che è avvenuto probabilmente sia per l’abilità degli orchestrali quanto per la dimestichezza di Lo Re con questa musica, di cui si è generosamente nutrito sin dall’adolescenza. Il cantante Giacomo Voli è voce versatile e adatta al genere, dall’emissione naturale, rilassata, ciò che gli ha consentito di esprimere un’ottima prova per tutta la durata del concerto. Una voce che si adatta piuttosto bene, mi sembra, all’epicità e alla “sinfonicità” di questa musica, benché diversa dagli accenti più marcatamente operistici del precedente cantante della band, Fabio Lione. Concludo con un tema che mi sembra rilevante e di cui ho avuto modo di parlare con Staropoli e Lo Re in sede d’intervista: la collaborazione tra una band come quella dei Rhapsody of Fire e l’orchestra non è che la naturale prosecuzione di un progetto insito nella stessa musica della band triestina, un progetto musicale in nuce sinfonico e neoclassico che ha promosso, di fatto, un maggiore rapporto tra mondi musicali di per sé comunicanti, ma che molto spesso appaiono tali soltanto agli addetti ai lavori, alle persone più disponibili a superare certi pregiudizi o agli appassionati più ardenti. In definitiva ci sarebbe da chiedersi quantomeno questo: quante persone presenti nel pubblico sono andate a scoprire questo spettacolo pur essendo digiune di musica metal, magari abituate ai concerti della stagione dell’orchestra milanese (e viceversa)? Un numero, nemmeno indicativo, non siamo in grado di fornirlo; ma che nel pubblico vi fossero anche persone di tale natura e sensibilità lo sappiamo per certo perché ne abbiamo le testimonianze. E mi sembra un risultato piuttosto interessante e soprattutto molto importante.

Marco Testa

Foto: Angelica Concari

Data di pubblicazione: 3 Giugno 2025

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