Il tormento della fede nei Dialogues a Roma

POULENC Les dialogues des Carmelites E. Wesin, A.C. Antonacci, E. Gubanova, E. Barath, J.F. Lapointe, B. Volkov; Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma, direttore Michele Mariotti regia Emma Dante scene Carmine Maringola costumi Vanessa Sannino

Roma, Teatro Costanzi, 4 dicembre 2022

Les dialogues des Carmelites mancavano dal Costanzi da oltre trent’anni. Era stata quella del 1991 un’edizione ben cantata, ma con una direzione (Jan Latham-Koenig) e una regia (Alberto Fassini) abbastanza anonime. Ora Michele Mariotti, alla sua prima inaugurazione di stagione all’Opera di Roma, ha assai opportunamente scelto di riprendere quello che deve dirsi come uno dei momenti più illustri del Novecento operistico. E punto d’approdo di un itinerario storico, mistico, culturale e teatrale che affonda le sue radici in alcune profetiche visioni avute da una suora del convento di Compiègne alla fine del XVII secolo; prosegue con il voto di martirio delle sedici carmelitane guidate da mère Thérèse Lidoine, con gli eventi del luglio 1794, ossia il processo e l’esecuzione a Place du Trône-Renversé; e si conclude con la loro beatificazione, voluta da Pio X nel 1906. Entrando presto nella letteratura, prima con La Relation du martyre des seize carmélites de Compiègne, di Soeur Marie de l’Incarnation (l’unica scampata alla ghigliottina), poi con il racconto di Gertrud von Le Fort, quindi con quel dramma di Georges Bernanos, che in origine era una semplice sceneggiatura per il film (“i dialoghi”, ossia lo script) di Raymond  Bruckberger (uscito nelle sale nel 1960) e  s’è inverato come testo d’eccezionale caratura poetica. E libretto per l’’opera lirica commissionata a Francis Poulenc dal Teatro alla Scala e qui eseguita in prima assoluta il 26 gennaio 1957. Poi subito a Londra, all’Opéra di Parigi e in tutto il mondo, centinaia di volte e con le più grandi interpreti dell’orbe lirico, da Virginia Zeani a Gianna Pederzini, da Denise Duval e Rita Gorr a Régine Crespin, da Leontyne Price e Shirley Verrett a Joan Sutherland, da Jessye Norman ad Anja Silja, da Leyla Gencer a Raina Kabaivanska.

Poulenc ha guardato con attenzione la musica (non solo) francese dietro di sé prima di mettersi al lavoro per i Dialogues. Non era tanto un problema di partorire dalla sua testa un linguaggio nuovo ed apposito – la cifra moderna, stilizzata, tagliente, brillantissima di Poulenc è una sua costante anche nei Dialogues e fin dalle prime battute – quanto di renderlo coerente con un dramma che presentava esigenze ben diverse dalla sua prima opera, Les mamelles de Tirésias. E più del Pelléas, che comunque qui è alle spalle, sia pur ad una certa distanza, i riferimenti sono l’amato Massenet, con Le jongleur de Notre-Dame e Thérèse; Puccini, soprattutto con quella sua specialissima Suor Angelica e per certi versi anche l’ultimo Verdi. L’esito è un lavoro in cui l’orchestra non solo è raffinata e al tempo stesso possente, ma più e più volte prende un ruolo guida, peraltro coadiuvata alla pari da un uso mirabile del coro, nel quale il compositore francese nel suo secolo non ha avuto rivali se non Goffredo Petrassi. Lo stile vocale dei personaggi è assai mobile: e passa da un andamento talora gregorianeggiante, ad un declamato moderno e scolpito, da un canto di conversazione che volge all’arioso a pagine di lirica effusione e di larghezza melodica. Sì che troviamo a poche battute di distanza la lettura della sentenza fatta dal Carceriere con meccanica, stolida, velocissima frammentazione e la grande aria di Mère Lidoine, tutta per ampie arcate di suono ove s’uniscono in pari misura fervore religioso e tenerezza materna. Arte straordinaria di Poulenc è qui anche quella d’aver dato alle cinque suore che da protagoniste spiccano sulle altre (Blanche de La Force, madame de Croissy, madame Lidoine, mère Marie de l’Incarnation e soeur Constance) un canto peculiarmente stagliato, una scrittura vocale che certo le differenzia e che tuttavia par sottendere un comun denominatore, quasi fosse quello che delle religiose è detto l’unum charisma. La psicologia tormentata, contradditoria, nervosa e patetica, di Blanche se ne stacca solo un poco ed è resa da Poulenc con una delicatezza e al tempo stesso con un’incisività che ne fanno una figura difficile da rendere, ma ad ogni passo emozionante.

Vertici dei Dialogues des Carmelites sono certo le tre grandi preghiere: l’Ave Maria, l’Ave verum e quel finale con il Salve Regina intonato dalle suore e man mano reso mancante di una voce dal cadere della ghigliottina (indicato punto per punto da Poulenc in partitura) fino all’estremo brandello del Veni Creator cantato con fermezza dalla sopraggiunta Blanche, finale che resta fra le cose più alte e palpitanti del teatro musicale di sempre.

Michele Mariotti ha dato una lettura del testo di Poulenc senz’altro italiana: intensa, pulsante, accesa fino alla violenza, talora, teatralmente formidabile e invero mai s’è sentita tal opera vantare una simile perspicacia strumentale. Forse qualche maggior trasparenza, qualche maggior concessione a certe oasi di nuances coloristiche e di lirismo contemplativo, qualche cura nel non sovrastare le voci, avrebbero giovato e dato luogo ad un esito d’assoluta perfezione. Alla guida del coro debuttava al Costanzi quel Ciro Visco che prima a Santa Cecilia, poi a Palermo (a non dir del San Carlo e d’altro prima ancora) s’è affermato come tra i maestri più insigni del ramo e che ha ricevuto applausi almeno pari a quelli di Mariotti: e dunque fragorosi. La regia di Emma Dante, tra le molte di lei che abbiamo viste, non ci è parsa la migliore: c’erano troppi gesti e troppe cose in scena, c’erano alcune azioni non poi indispensabili (i mimi blu, i pietroni e le biciclette gialle, che inutili!) e alcuni costumi decisamente brutti. Tuttavia la regista siciliana è donna che non dimentica mai il sentimento e la persona, che dentro il suo teatro lascia sempre un messaggio d’approfondimento umano (qui femminile) attentamente pensato e, ancor più, intimamente vissuto. E ciò nei suoi Dialogues non è mancato.

L’ampio numero di voci in campo era complessivamente d’un buon livello, cui si sarebbe dovuto severamente richiedere una migliore pronuncia del francese (a quanto pare noto solo a Lapointe e alla Antonacci). Corinne Winters è stata una Blanche assorta, fragile e indifesa come è giusto, ma appena mancante di personalità. Che non faceva certo difetto alla Priora di Anna Caterina Antonacci, autoritaria e sconvolta sino ad un graffiante espressionismo (ma spesso sommersa dall’orchestra di Mariotti). Ha un po’ deluso Ewa Vesin come Madame Lidoine, ruolo tutto impostato sulla radiosità delle ascese alla zona più alta del pentagramma, ossia il tallone d’Achille della cantante polacca. Esemplare invece la mère Marie di Ekaterina Gubanova, per un canto morbido e affettuoso com’è giusto. Brava Emöke Barath come liliale soeur Constance e bravissimo Bogdan Volkov come intenso e commosso Chevalier de La Force. Jean-François Lapointe era un Marquis de La Force di lusso e tutte le altre parti, femminili e maschili, sono apparse di qualità irreprensibile.

Il pubblico è apparso massimamente coinvolto dallo spettacolo e lo ha manifestato con gli applausi e gli entusiasmi che di solito si tributano ad opere di accertato repertorio italiano. Evviva!

Maurizio Modugno

Foto: Fabrizio Sansoni

Data di pubblicazione: 7 Dicembre 2022

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