Il Beethoven “all’antica” di Jordi Savall

BEETHOVEN Sinfonia n. 6 in fa maggiore “Pastorale; Sinfonia n.7 in la maggiore Le Concert des Nations direttore Jordi Savall

Torino, Auditorium del Lingotto, 13 ottobre 2021

Benché piuttosto presente nelle programmazioni italiane, Jordi Savall è apparso per la prima volta tra i protagonisti dei Concerti del Lingotto soltanto nei giorni scorsi. Pertanto la stagione 2021-2022 attiva presso l’auditorium torinese debutta con un appuntamento di grandissimo prestigio: il maestro catalano, che ha appena spento le ottanta candeline (coetaneo quindi di Muti, della Argerich, di Accardo, Domingo e altri) è personalità assai ecclettica, poliedrica figura che alterna l’arco della sua viola da gamba alla bacchetta del direttore d’orchestra, oltre alla penna del musicologo. Il pubblico lo conosce essenzialmente quale baluardo della musica antica e barocca, di cui è uno dei più importanti alfieri in campo internazionale da almeno quattro decenni. E con criteri del filologo più agguerrito, ma di una filologia incardinata in una pratica musicale lunghissima, egli, insieme a Le Concert des Nations (compagine fondata nel 1989 insieme alla prima moglie, Monserrat Figueras) si approccia ora al repertorio del primo Ottocento, in questo caso alla Sesta e Settima sinfonia di Beethoven. Il tutto nel quadro di un progetto più ampio, che punta all’integrale delle sinfonie del maestro di Bonn, ispirato da alcuni principi di metodo molto chiari ed enunciati dallo stesso Savall: il ricorso a un organico così come lo conosceva Beethoven, ciò che si accompagna all’impiego di strumenti d’epoca, dagli archi alle trombe e ai corni naturali (all’epoca di composizione di questi lavori siamo ancora in epoca pre-pistoni); un lavoro filologico sulle fonti che ci pare particolarmente oculato per gli esiti convincenti che ha prodotto, come ad esempio nel convinto recupero delle indicazioni agogiche che lo stesso compositore aveva già a suo tempo precisato e che tuttavia sono state sovente “corrette” secondo letture diverse, spesso lecite e ben motivate ma che risentono quasi sempre della sensibilità attuale, per non dire di quella del secolo scorso: già Beethoven ebbe a lamentarsi, come faranno anche altri autori (celebre il caso di Giuseppe Verdi), del fatto che le orchestre della sua epoca non rispettassero i tempi da lui medesimo espressamente indicati. Ma attenzione, perché anche il modo di ricostruire il passato risente del filtro del presente, ragion per cui l’ideale del definitivo recupero delle sonorità di tempi tanto distanti è destinato a restare, crediamo, almeno in parte appunto un ideale, ciò che naturalmente non vuol in alcun modo negare l’importanza e la fondatezza di questo approccio e con esso alcuni tra gli esiti ottenuti, che ci aiutano a comprendere maggiormente quali sonorità si potevano effettivamente ascoltare in epoche diverse dalla nostra.

Pertanto il risultato, che complessivamente ci è parso esprimersi con maggiore incisività e originalità nella Sesta sinfonia più che nella Settima, detto in termini sintetici ci sembra essenzialmente configurarsi almeno in parte quasi come una decostruzione delle esecuzioni che si sono potute ascoltare nei decenni a noi precedenti; esecuzioni le cui linee, sonorità e ampiezze sono state e vengono tutt’ora sovente ingigantite attraverso modalità di approccio per certi versi più, poniamo, mahleriane e straussiane che beethoveniane, quantomeno più debitrici della grande orchestra tardo-romantica che non di quella tardo-classica e Biedermeier. Ecco che Savall e il suo gruppo di musicisti si adoperano per levare l’eccesso accumulato da decenni (e più) di interpretazioni beethoveniane, svelandoci in tal modo nuove forme, vie, risvolti e colori di questa musica, ciò che è reso possibile anche attraverso l’attenzione scrupolosa riservata al ruolo degli strumenti a fiato: Savall è ben consapevole (e in qualche modo tale aspetto emerge tangibile all’ascolto) che all’epoca della composizione dei cimenti sinfonici beethoveniani le sonorità e le possibilità espressive dei fiati andavano sempre più ad acquisire un ruolo preminente rispetto al passato, nonostante questo aspetto tuttavia non sempre sia stato compreso. Così infatti scriveva da Vienna il critico musicale della «Allgemeine musikalische Zeitung», il 15 ottobre 1800, dopo aver ascoltato la Prima sinfonia: «Alla fine del concerto è stata eseguita una sinfonia di sua composizione [di Beethoven], nella quale abbiamo ravvisato molta arte, novità e una grande ricchezza di idee. Abbiamo notato tuttavia l’uso troppo frequente degli strumenti a fiato: ne risulta che la sinfonia è piuttosto un’opera di armonia che non autenticamente orchestrale». Un errore di prospettiva, come dal nostro comodo punto di vista sarebbe facile osservare e persino stigmatizzare, ma che è pure testimone rilevante di quel momento assolutamente decisivo nella storia dello sviluppo orchestrale e strumentale. Savall, si diceva, ha provato a togliere l’eccesso, o ciò che considera tale, riequilibrando il rapporto tra fiati e archi in una prospettiva molto ben calibrata: le linee si fanno quindi più nitide, gli equilibri più stabili, il dialogo tra le varie sezioni più chiaro e comprensibile, ad esempio nelle imitazioni. Nella Settima, si diceva sopra, ci è parso che il lavorio (compreso lo snellimento) sul suono abbia portato a esiti meno originali, ancorché spesso di buonissima fattura: ad esempio il celeberrimo impulso ritmico dattilo-spondeo dell’Allegretto (secondo movimento) guarda finalmente avanti e, a prescindere dall’andamento scelto, non resta seduto ad attendere di essere trainato obtorto collo, come troppo spesso si è ascoltato in esecuzioni persino molto reputate e celebrate. Di tutto questo, e di molto altro, dobbiamo essere grati a Savall e ai suoi musicisti.

Marco Testa

Foto: Pasquale Juzzolino

Data di pubblicazione: 15 Ottobre 2021

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