Il Bach contemporaneo di Isabelle Faust

BACH Sonate & Partite per violino solo violino Isabelle Faust

Bologna, Teatro Manzoni, 16 maggio 2021 (Bologna Festival)

La dottoressa Leana Wen (per Time magazine, nel 2019 una dei “100 Most Influential People” mondiali), contrariata dal fatto che Texas e Florida hanno ridato corso al normale flusso civile della vita di ognuno, in una recente intervista alla CNN ha dichiarato che se alla carota (le riaperture) non si alterna il bastone (contromisure restrittive), sarà impossibile convincere la gente a vaccinarsi contro il Covid-19: “bisogna affermare con fermezza (traduco più o meno letteralmente le parole della Wen, d’altronde facilmente reperibili su internet, finché non si accorgeranno della frittata e le taciteranno): guardate gente di quante libertà potrete godere, una volta vaccinati; perché se non lo si fa, la gente ricomincerà a goderne in ogni caso, anche senza vaccino…”. Il Faucifiammante italiota ha parlato chiaro: con la carota di moderate riaperture, resta il bastone minaccioso. Così, il ritorno di Isabelle Faust alle Sonate & Partite di Bach – inaugurazione ‘alla grande’ di Bologna Festival, dopo l’anno di reclusione per non aver commesso il fatto — è avvenuto in un teatro Manzoni vuoto in misura – posso sbagliare per difetto — dell’8 ogni una seggiola piena (due vuote per ogni fianco dello spettatore, due davanti e due dietro); l’isolato ascoltatore costretto dietro la maschera, senza uno spiraglio.
Con ciò, non mancano quelli che rendon grazie per poter nuovamente ascoltare, sia pure in quelle desolanti condizioni, un’artista prodursi dal vivo. Cupi pensieri affollavano la mente, mentre ascoltavamo le introduzioni di Maddalena da Lisca, direttore artistico del Festival, incapace di celare la propria malinconia, di fronte ai cartelli in vece delle persone: vero è che il genio di Isabelle Faust, impegnato a ridar vita sonora a quello immortale di Bach, seppe, per lo spazio d’un meriggio e d’una serata, fugarli. E fummo lieti, nelle comode poltrone del Teatro Manzoni (anche questa è una rarità, ché i sedili dei teatri son di solito mezzi di tortura), a godere di quei suoni formantisi nel violino stupendo dell’artista tedesca per incielarsi pieni di vita, di ‘senso’, di pura bellezza. Bellezza pura, ma mai fine a se stessa, che l’interpretazione di Isabelle Faust è ad ogni istante lieve e profonda, di una Tiefe ch’è però ricchezza e non zavorra.

L’artista non ha fatto noto se, per i concerti bolognesi, ha usato il suo leggendario Stradivari “Bella addormentata” del 1704 od altro dei suoi, comunque magnifici, strumenti: di sicuro quel violino non mostrava 317 anni, né dava l’idea di voler sottolineare la distanza esattamente tricentenaria (l’autografo bachiano è del 1720) delle musiche cui rendeva vita. Non è questione di ribadire la ‘modernità’ di Bach, da darsi ormai per acquisita se non per scontata. L’impressione era che Isabelle Faust stesse creando musica scritta apposta per lei due giorni prima: forse la straordinaria artista germanica ha, con l’arte del suo Geigenspielen (se così si può dire), davvero trovato l’unico significato possibile di Musica Contemporanea: che è tale non in relazione alla data in cui è stata composta, ma agli spiriti combinati di lettera (statica) e suono (dinamico).

In effetti, ogni musica, nel momento che risuona, reca in sé qualcosa di esclusivamente contemporaneo, che però sùbito dissolve con lo spegnersi del suono: l’hic et nunc del Bach faustiano ha invece la novità dell’interpretazione originale e il fascino del monumentum aere perennius, comunica, cioè, la sensazione dell’assoluto e del permanente, che non svanisce ma impregna di sé, unita al carattere dell’incantata scoperta. Sia bene inteso: non che questo vada a scàpito della padronanza dello stile, che Isabelle Faust conosce a perfezione; ma non ne è succube. Lo stile, la conoscenza della Urpraxis sono per la Faust strumenti di partenza, non gli esiti da perseguire, tra scimmiottature e ammiccamenti. In tal modo, la musica cerebrale di Bach è divenuta il trionfo dell’emozione, pure senza scadimenti romantici o sentimentali, ché il cuore era sempre mosso dal cervello: limpidezza e stupefazione.

La sequenza dei sei capolavori è stata secondo l’ordine di pubblicazione per i primi tre (concerto pomeridiano), invertendolo per i seguenti, in modo da concludere la serie con la Ciaccona. E con questo capolavoro nel capolavoro, l’esecuzione della Faust ha scalato vette di tale originalità da spiazzare l’ascoltatore ad ogni suo colpo d’arco. Ho in vita mia ascoltato mirabili esecuzioni della Ciaccona, ora travolgenti di virtuosismo, ora più intimamente concentrate, alcune miranti all’involo celestiale, per via dello sbalzo agile dell’articolazione, altre votate ad un più terragno radicarsi attraverso le ritorte d’un fraseggio aggrovigliantesi; talune intente a svelare le armonie dei contrappunti nascosti, talaltre compiaciute della suprema bellezza melodica dell’opera. Isabelle Faust ha impresso un andamento come circolare alla partitura: ma un cerchio che prima di chiudersi si concedeva a sviamenti e torsioni interne e, una volta raggiunto il climax virtuosistico ed emotivo, non si è richiuso su di sé per una via lineare, ma è parso piuttosto iniziare un percorso nuovo, la cui mèta non era possibile divinare. Solo dopo un lunghissimo peregrinare (ma il pilota-navigatore Faust aveva ben chiara la mappa del percorso e mai procedette alla ventura) la musica poteva tornare – almeno apparentemente – al punto di partenza: solo che, nel mezzo, era trascorsa la Storia e il punto non era più lo stesso di quando s’era partiti. L’interminabile silenzio che Isabelle Faust ha fatto seguire alla nota conclusiva, delibata ben oltre lo spegnimento dell’ultimo suono armonico, era anch’esso diverso dai silenzî ‘d’attesa’ che diversi interpreti lasciano scorrere prima di concedersi all’applauso: non era, infatti, un tacet che ricaricava la tensione di un’opera appena terminata in una sublime smorzatura dei suoni; né era, al contrario, lo scarico della tensione di vibrazioni che si fermano grado a grado. Era un silenzio vivo, era musica nella musica o dopo la musica. La ricchezza di musica — fatta di suoni mentali, di rumori, di sospiri, di immaginazione, di materia — di cui quel silenzio era pregno, lo rendeva molto vicino ai ‘suoni’ dei celebri 4’33” serviti a John Cage per insegnarci l’elemento fondamentale di ogni musica, non solo dei nostri giorni: la pausa è molto di più della tredicesima nota. È, questa, contemporaneità? È assolutizzazione della storia? Per me è la pura intelligenza dell’arte.

Bernardo Pieri

Foto: Roberto Serra

Data di pubblicazione: 24 Maggio 2021

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