I dubbi e l’eclettismo della Messa di Bernstein a Caracalla

BERNSTEIN Mass baritono Markus Werba Orchestra, Coro e Corpo di Ballo del Teatro dell’Opera di Roma, direttore Diego Matheuz regia Damiano Michieletto scene Paolo Fantin costumi Carla Teti luci Alessandro Carletti video Filippo Rossi maestro del Coro Roberto Gabbiani
Roma, Terme di Caracalla, 3 luglio 2022

Il 22 novembre 1963 il Presidente degli Stati Uniti, John Fitzgerald Kennedy viene assassinato da Lee Harvey Oswald. Nel settembre del 1971 Leonard Bernstein finisce di comporre una messa (Mass) a lui commissionata dalla moglie di John, Jacqueline, e  presenta il pezzo “teatrale per cantanti, musicisti e ballerini” in occasione dell’apertura del John F. Kennedy Center for the Performing Arts di Washington D.C.
In prima esecuzione italiana, l’Opera di Roma ha messo nel cartellone della Stagione di Caracalla Mass, con un dispendio di energie e mezzi difficilmente replicabili.
Compagnia di circa duecento elementi fra ballerini, cantanti, coristi e musicisti, nastri registrati, un direttore sudamericano che da sempre frequenta la musica tutta, un regista intelligente e vincente, professionisti impeccabili negli altri ruoli responsabili.
La critica originale della prima, dell’inviato del “New York Times” in giù, fu in gran parte negativa, soprattutto per l’attribuzione del termine “eclettico” affibbiato a Bernstein, che non lo rifiutò affatto, ma ne fece, anzi, un’attribuzione positiva ad un personaggio che, oltre ad essere un musicista classico, considerava la musica nei suoi caratteri più ampi e che con piacere confezionò una messa tridentina della Chiesa cattolica in una performance comprendente un’introduzione dodecafonica, cori di strada e di voci bianche, musica jazz e rock, musica liturgica. Un’opera piuttosto complessa, basata su un testo che indaga il dubbio, nella sua forma più assoluta, primordiale, originaria. Il dubbio che la religione pone sin dall’inizio fra l’abbandono e la credenza nel Padre unico, Dio, e la possibilità che non esista, di fronte alle brutture di un mondo che non gli è simile, non gli assomiglia. Interrogativi filosofici che riguardano però il mondo che ci circonda, ci avvolge e ci rende protagonisti. Che cosa hanno a che vedere Dio e la sua infinita bontà, con la guerra, la povertà, il mercantilismo, l’egoismo e la vacuità di certi atteggiamenti immorali nei confronti dei nostri fratelli, degli immigrati, degli stranieri? Che c’è di sacro in noi, fedeli amorali che all’uscita dalla messa dimentichiamo tutto e facciamo cose che solo la certezza della confessione ci fa accettare supinamente?
Dubbi, interrogativi degli anni Settanta e domande di oggi, nel pieno del dramma della guerra, di fronte a una pandemia che sembra inesauribile. Bernstein e la sua Mass li propongono con attuale vivacità, e Damiano Michieletto li ripropone plasticamente nelle immagini corali che avvolgono il palcoscenico, dominato così intensamente dalle scene di Paolo Fantin che disegnano il muro della vergogna, deflettore di ogni diversità ed estraneità, spargiacque di mondi contrastanti, credente e laico. Con un sapiente e continuo gioco di luci, Alessandro Carletti descrive le scene con nettezza, adopera i colori per separare i gruppi di danzatori, i costumi di Carla Teti dipingono il mondo che rappresenta e distingue quegli anni, li caratterizza delicatamente. Coreografie efficaci dispongono e impongono movimenti e gesti che ci danno sempre conto della situazione, la caratterizzano lasciandoci chiara l’interpretazione. Sul palco c’è la fantasia e la varietà dei generi musicali che si alternano e si compendiano, c’è quell’eclettismo di cui è permeato lo spettacolo, non ci sono però le spazializzazioni del suono, presumibilmente presenti negli spettacoli precedenti dove il gruppo rock, l’insieme jazz, il coro improvvisato della folla stavano sul palco e la musica registrata veniva da dietro e la sinfonica dalla buca d’orchestra. Elementi acustici questi, che sono però stati ben ovviati da una spazializzazione che ha previsto altoparlanti avvolgenti, disposti dietro e ai lati della platea creando così gli effetti desiderati.
Nel gruppo di solisti emerge il canto composto ma pur sempre distinto dell’ottimo Markus Werba, chiamato a questo difficile ruolo del celebrante, cui tocca assumersi tutta la complessità dialogica del lavoro facendo da muro riflettente tutte le domande intime degli altri, fra i quali i bravissimi Marianna Mappa, Irene Savignano, Arturo Espinosa, Alessandro Della Morte, Angelo Giordano e Gianluca Sticotti, solisti del coro.
La performance ha ottenuto un chiarissimo successo, viste anche le tante analogie fra le tematiche di quei tempi e il periodo che stiamo attraversando e la numerosa partecipazione all’evento di cittadini statunitensi, riapparsi or ora nella Roma capitale.
Il lavoro orchestrale è stato presentato e guidato energicamente da Diego Matheuz, che ha saputo attraversare i generi con le variazioni, soprattutto timbriche, richieste, dosando sapientemente dinamiche contrastanti. Bravissimo Roberto Gabbiani che ha istruito i due cori, maschile e femminile, spesso distinti e sempre separati.
Successo pieno per l’Opera di Roma che ha saputo proporre con maestria e rispetto della storia questo eclettico lavoro firmato indissolubilmente Leonard Bernstein.

Davide Toschi

Foto: Fabrizio Sansoni

Data di pubblicazione: 9 Luglio 2022

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