“Abbasso la squola”: delude il Flauto magico a Roma

MOZART Die Zauberflöte Juan Francisco Gatell, Zachary Altman, Markus Werba, Emöke Barath, Aleksandra Olczyk, John Relyea, Caterina Di Tonno, Marcello Nardis, Anja Jeruc, Valentina Gargano, Adriana Di Paola, Arturo Espinosa, Nicola Straniero; Orchestra, Coro e Scuola di Canto Corale del Teatro dell’Opera di Roma, direttore Michele Spotti regia Damiano Michieletto, scene Paolo Fantin costumi Carla Teti

Roma Teatro Costanzi 20 gennaio 2024

Il flauto magico non ha avuto grande fortuna al Teatro dell’Opera di Roma. I nostri primi ed unici ricordi positivi vanno alla recita della Bayerische Staatsoper di Monaco di Baviera, il 6 febbraio 1979, direttore Sawallisch, un cast classico (Moll, Schreier, Brendel, Ott, Falcon, Wise) e una regia di August Everding che fruiva delle stupende, elegantissime scene di Jürgen Rose. Vent’anni dopo arrivò Gelmetti con la mise en scène di Pizzi e l’omaggio (non gratuito) al Grande Oriente d’Italia o il carrozzone in Piazza del Popolo (entrambi da dimenticarsi). Poi altri: e da ultimi nel 2018 Barrie Kosky e Suzanne Andrade, con una produzione della Komische Oper di Berlino, portata in non pochi teatri, da Los Angeles ad Atene, ove tutto era spostato nel mondo del cinema, muto o parlato o d’animazione: il Nosferatu di Murnau, Louise Brooks, Buster Keaton, Harold Lloyd, Chaplin beninteso e citazioni a volontà, ivi compreso Metropolis di Lang e molto di certi fumetti gothic, horror o comunque noir. A tratti eccessivo, a tratti troppo noncurante della partitura mozartiana, ma impossibile negargli genialità e fascino debordanti. I cantanti e la direzione di Nánási non erano invece più che sufficienti.

Ora la regia e l’allestimento di Damiano Michieletto con Paolo Fantin e Carla Teti per scene e costumi, nato alla Fenice di Venezia in coproduzione con Roma e il Maggio fiorentino, giunge a dir la sua in modi, com’era da attendersi, singolari. In scena un’aula scolastica vecchio stampo, una grande lavagna che spesso si anima di scritte e sentenze, un banco da scolari anni Sessanta, una porta a destra da cui escono talora suffumigi luminosi; un praticabile sopraelevato con la stanza da letto della Regina della Notte (povera regina, inver!); pareti frontali che salgono o scendono a volte mostrando un boschetto oscuro. Cosa qui avvenga, le ragioni per cui gli scolari (Tamino e Pamina) o i bidelli (Papageno e Papagena), Monostatos (quasi un Pierino alla Alvaro Vitali) corrano, stiano fermi, cantino, tacciano, continuamente spazzino e lavino i pavimenti e per cui alla fine la si butti in totale caciara come fosse finita (o abolita?) la scuola, beh… è sfuggito a noi e crediamo a molti. Nel programma di sala, però, Michieletto ci spiega tutto: il suo Flauto magico è metafora del passaggio da un’istruzione gestita da religiosi ad un’altra gestita da laici, grazie beninteso alla Rivoluzione Francese. E allora bisognava metterci e poi toglierci il Crocifisso dalla parete. Coimunque nui chiniam la fronte al Massimo Fattor, riandando in cuor nostro a quei versi del Rigoletto sussurrati dai cortigiani: “Coi fanciulli e co’ dementi spesso giova il simular”…

Ci vien meno facile simulare e tacere quanto all’esecuzione musicale. Che da parte del giovane Michele Spotti sul podio, s’è pienamente accodata al palcoscenico, offrendoci un Flauto magico frettoloso, superficiale, dal suono spesso ruvido e privo non si dice di sacralità o di spiritualità (sarebbero a questo punto inopportune), ma anche degli spazi minimi onde far espandere almeno quei sublimi cantabili che sono ben a chiare note scritti in partitura.

Il cast vocale era alterno e un po’ abbandonato a sé stesso. Di Juan Francisco Gatell non è questo il primo Tamino che ascoltiamo e sappiamo che può far assai meglio che cantar sempre forte o mezzoforte e in un pessimo tedesco. Certamente più attendibili figuravano il rodatissimo Papageno di Markus Werba e soprattutto il Sarastro morbido, affettuoso, profondo di John Relyea, qui ancor più giusto che in Mefistofele. Emöke Barath ha dato a Pamina qualità vocali pregevolissime (timbro luminoso e pieno, belle e frequenti sfumature), ma proprio in “Ach, ichfühl’s” è incorsa in qualche ben udibile pasticcio. Aleksandra Olczyk passa un po’ ovunque per una specialista del ruolo di Astrifiammante: al fatto gli acuti sono asperrimi e le agilità sì impressionanti per volume e squillo, ma anche trasandate e imprecise. Alle Drei Damen (in abito da suora?) pessime per canto e dizione di Anja Jeruc, Valentina Gargano e Adriana Di Paola, s’opponevano le incantevoli vocine di Dorotea Marzullo, Miriam Noce e Laetitia De Paola: brave, bravissime nei panni (e negli elmetti da cantiere con lucina accesa) dei tre fanciulli. Appena decorosi gli altri. Teatro strabocchevole e pubblico ora diffusamente intento a chattare sul telefonino, ora pronto ad applaudire qualsiasi exploit scenico o vocale.

Maurizio Modugno

Foto: Fabrizio Sansoni

Data di pubblicazione: 23 Gennaio 2024

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