Pagliacci e servette nell’estate torinese

Il Pimpinone di Telemann

PERGOLESI La serva padrona TELEMANN Pimpinone, ovvero le nozze infelici F. Di Sauro, M.F. Romano, P. Pignatelli; Orchestra del Teatro Regio, direttore Giulio Laguzzi regia Mariano Bauduin scene Claudia Boasso costumi Laura Viglione

LEONCAVALLO Pagliacci V. Sepe, J. Tetelman, M. Kiria, A. Giovannini, A. Arduini, G. Capoferri, M. Capettini; Orchestra e Coro del Teatro Regio, direttore Stefano Montanari messa in scena Anna Maria Bruzzese scene e costumi Paolo Ventura

Torino, Cortile di Palazzo Arsenale, 17 e 27 luglio; 12 agosto 2021

In lotta con l’imprevedibilità metereologica, la stagione estiva del Regio ha tenuto il passo, andando anche al di là delle attese. Un buon lavoro di staff ha rimediato alle carenze tecniche che avevano un po’ inficiato l’iniziale Elisir d’amore. Artisticamente, non sono mancate le sorprese. Confrontati a distanza, i capolavori di Telemann (1725) e Pergolesi (1732) hanno messo in luce due diversi contributi stilistici alla definizione del genere dell’intermezzo. Più sofisticato e astratto il primo (riscoperto solo nel 1925), nel suo divertente e cinico realismo, mentre la perfetta interazione fra testo e musica assegna al secondo una vis comunicativa e una definizione psicologica sempre moderna. In modo sottile, nella gestualità, negli atteggiamenti, nei costumi e negli arredi della bella cornice scenica condivisa, Mariano Bauduin ne ha differenziato la teatralità, col denominatore comune d’una continua vivacità di ritmo e inventiva, nello spirito della commedia dell’arte e della tradizione napoletana di Roberto De Simone, con cui ha collaborato per anni. Anche gli innesti che si è concesso sono parsi pertinenti, oltre che ben resi dall’ottimo Paolo Pignatelli: Vespone (falso muto) canta tra l’uno e l’altro degli intermezzi pergolesiani l’umbratile siciliana di Vannella da Lo frate ‘nnamurato; in Telemann un non previsto poeta/mendicante introduce con brevi versi in dialetto (dello stesso Bauduin), quindi affronta due arie della coeva (1728) The Beggar’s Opera, di cui è usata anche l’ouverture. Come testo si è preferito il fortunato libretto scritto da Pietro Pariati per la versione di Albinoni (1708), che Telemann fece volgere in tedesco da Johann Philipp Praetorius, che ci mise del suo (a tratti qui presente, tradotto da Bauduin). Insomma, un pastiche, ma che ha funzionato. Marco Filippo Romano, nel canto come nei recitativi, è stato un magistrale Uberto, governando poi con perizia da vero virtuoso i falsettini dell’aria di Pimpinone «So quel che si dice». Francesca Di Sauro ha un timbro di qualità e una notevole verve, mentre la dizione appare migliorabile. Un’espressione più autenticamente patetica avrebbe dato più rilievo al suo «A Serpina penserete», mentre tutte le arie di Vespetta hanno trovato in lei un’esecutrice aggraziata, elegante, sicura. Con il prezioso supporto al cembalo di Carlo Caputo, Giulio Laguzzi ha diretto con gusto, fantasia e rigore, guidando in porto Pimpinone anche quando nella seconda serata la pioggia ha imposto il limite di soli sei strumentisti sul palco.

Per Pagliacci si è attinto efficacemente all’allestimento del 2017, ambientato nelle rovine della guerra ma sottratto al banale dal poetico immaginario di Paolo Ventura, dove i richiami al realismo magico d’un Donghi sono palesi ma rivisitati con occhio personale. La ripresa rimarrà da ricordare per la concertazione di Stefano Montanari, che in un contesto non ottimale è riuscito ad esaltare, come raramente accade di udire, la ricchezza e la finezza della partitura. Non meno impressionante è stata la prova del tenore cileno/americano Jonathan Tetelson: un Canio insolitamente giovane e aitante è straniante a vedersi, ma la padronanza scenica, la forza e lo squillo lucente del metallo, il tono disperato dell’accento sono ciò che ci si attende dai grandi interpreti del ruolo. Certo, da verificare in una sala normale: ma da tempo non ricordo uno «spinto» di tale caratura. Pur con qualche squilibrio nei registri, Valeria Sepe ha messo a frutto la sua familiarità con Nedda e soprattutto nel duetto con Silvio (un corretto ma un po’ impersonale Alessio Arduini) ha bene risposto alla illuminante lettura del direttore. Un Tonio di peso lirico, fraseggiato con intelligenza, è stato Misha Kiria, mentre Andrea Giovannini (Peppe) è parso in difficoltà nella serenata. Successo per tutti, ma acclamazioni per Montanari e Tetelson da un pubblico consapevole.      

Giorgio Rampone    

Data di pubblicazione: 23 Agosto 2021

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