Non convince il ritorno “all’antica” della Favorita piacentina

DONIZETTI La favorita S. Piazzola, A. M. Chiuri, C. Albelo, S. Lim, A. Galli, R. Campanella; Coro del Teatro Municipale di Piacenza, Orchestra Filarmonica Italiana, direttore Matteo Beltrami regia Andrea Cigni scene Dario Gessati, costumi Tommaso Lagattolla

Piacenza, Teatro Municipale, 18 febbraio 2022

A Piacenza e (nei prossimi giorni) a Parma torna La favorita di Donizetti. Proprio quella con la “a” finale, nella vetusta versione ritmica di Francesco Jannetti. Dopo decenni nei quali si è tornati all’originale francese, la traduzione italiana può affascinare solo due tipi di spettatori: i vecchi melomani, che vogliono ascoltare l’opera “come la si faceva una volta”; e i cultori del repertorio donizettiano come il sottoscritto che, dopo aver ascoltato e riascoltato in tempi recenti La favorite, sono assaliti dalla curiosità di vedere una volta in scena la versione italiana. Esaudita una tantum la curiosità, si può tranquillamente relegare Jannetti negli archivi, dato che i suoi versi, non di rado astrusi e poco musicali, stravolgono la trama, intricandola gratuitamente per attenuarne i riferimenti religiosi, e alterano i caratteri di alcuni personaggi (provate a leggere il testo della cabaletta del re nelle due versioni, «Léonor! mon amour brave / De’ nemici tuoi lo sdegno», e noterete come il seduttore possessivo si trasformi miracolosamente in un principe azzurro). Per gli altri ascoltatori, magari incuriositi da un titolo di Donizetti a loro sconosciuto, proporre la versione italiana rappresenta un indebito torto, in quanto nega la possibilità di accostarsi all’opera nella sua veste originale. Chissà se quell’anonimo cittadino che, ritirando il cappotto al termine della recita, diceva: «queste sono opere da archiviare e basta», avrebbe detto lo stesso dopo aver ascoltato La favorite francese. La scelta dell’edizione eseguita non è l’unico dettaglio d’antan di questa produzione, che è stata falcidiata di tagli di tradizione ‒ è saltato di fatto ogni da capo passibile di variazioni ‒ ed è stata affidata a un mezzosoprano specializzato in un repertorio più tardo: tutte decisioni che hanno contribuito a spogliare l’opera dei suoi tratti belcantistici per proiettarla stilisticamente al tempo del Verdi maturo. Su questa linea si è mossa anche la direzione di Matteo Beltrami, nello staccare tempi serrati che hanno accentuato la stringatezza della partitura. Che si condivida o meno la scelta, il direttore l’ha comunque perseguita con efficacia, tenendo con autorevolezza le fila dei complessi artistici, come è emerso nel coinvolgente concertato del finale III. E avrebbe verosimilmente estratto una migliore qualità del suono, se avesse avuto a disposizione una compagine orchestrale più prestante.

Simone Piazzola e Celso Albelo

Tra i solisti si è distinto il basso Simon Lim, un Baldassarre imponente nella statura come nella voce, robusta senza perdere di rotondità, profonda e ferma in accordo con la sua autorevolezza paterna e religiosa (nella versione italiana è padre carnale, non solo spirituale). Simone Piazzola ha tratteggiato con scaltrezza la figura del re Alfonso, mettendone in luce la personalità contraddittoria con opportune sfumature cromatiche, e dando particolare rilievo al tormento sotteso alle dolci volute melodiche del terzetto «A tanto amor». Nell’aria «Vien, Leonora», dopo un cantabile curato e scavato, è parsa meno convincente la cabaletta, cui avrebbero giovato più peso e più passione. Celso Albelo non era nella sua serata migliore, bensì in una di quelle in cui emerge una certa incompiutezza che talvolta lo caratterizza da quando il suo repertorio si è esteso al di là dei confini del tenore di grazia. È più convincente nelle romanze degli atti estremi, dove il tipico timbro nasale giova come fattore espressivo per delineare un carattere sognante e nostalgico, e può sfoggiare un morbido canto sul fiato adornato di smorzature. Nei momenti più virili, come l’aria che conclude il I atto, il suono perde di grazia e la definizione del personaggio manca di nitore, così come manca di spessore la sua presenza nella stretta del finale III. La protagonista, Anna Maria Chiuri, dispone di un bel registro centrale, espressivo e ricco di colori, sul quale lavora con oculato fraseggio delineando con efficacia i sentimenti di Leonora; le estremità non convincono altrettanto, essendo il grave un po’ vuoto e l’acuto non sempre a fuoco. La sua attitudine a vestire i panni della tigre da palcoscenico emerge con chiarezza quando, con poche battute, sa far balenare la fierezza e l’orgoglio della favorita davanti al re che ha scoperto la sua vera passione amorosa.

Non vetusta, ma più astrusa del libretto di Jannetti, è la regia di Andrea Cigni. In scena si vede ‒ e l’articolo sul programma di sala a grandi linee ce lo conferma ‒ un’aula nella quale si tiene una lezione di anatomia, fatta all’antica, dissezionando cadaveri. Nella cavea prende posto il coro. Sul tavolaccio vengono portati i personaggi dell’opera che, invece di essere dissezionati, riprendono vita, sono rivestiti di costumi pseudo-medievali e svelano sé stessi cantando i propri sentimenti, in una sorta di autopsia metaforica, durante la quale la recitazione diviene piuttosto convenzionale. Il pubblico non deve averci capito molto, qualcuno sicuramente ha gradito poco, e al termine dello spettacolo sono piovute sonore contestazioni. Non sempre gli spettatori hanno torto.

Marco Leo

Foto: Cravedi

Data di pubblicazione: 24 Febbraio 2022

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