Nel nome di Zeffirelli, l’Arena fa 99

BIZET Carmen C. Margaine, K. Gardeazabal, B. Jagde, L. Micheletti; Orchestra, coro e ballo dell’Arena di Verona, direttore Marco Armiliato regia e scene Franco Zeffirelli costumi Anna Anni coreografia El Camborio

Verona, Arena 17 giugno 2022

Doveva avere proprio ragione quel diavolo di un Nietzsche nel sottolineare, sia pur in aperto polemico contrasto con le brune nordiche del suo ex amico Wagner, la estrema potenzialità di un’opera mediterranea come la Carmen di Bizet. Oggi, con animo meno di parte, non possiamo non restare ogni volta ammaliati da questa strana commistione di esplosione di vitalità e di colori e nel contempo del costante e sotterraneo alito di morte che ne rappresenta una miscela esplosiva e vincente: eros e thanatos. secondo una ben rodata ricetta romantica delle pulsioni contrastanti studiate dal Doktor Freud.

Nell’opéra comique di Bizet c’è infatti tutta la Spagna pittoresca con i suoi profumi, il caldo, la frenetica vita, il colore dei suoi costumi tradizionali e i ritmi ossessivi delle sue danze classiche. Ma per portarla in scena nella pienezza dei dettagli occorre un regista di solida tradizione come, nel caso di questa inaugurazione areniana un po’ straordinaria, il compianto Franco Zeffirelli, che ha rinsaldato negli anni il suo legame con Verona. La novità era infatti una Carmen, in un certo senso “nuova”, in quanto costituita dall’assemblaggio di edizioni diverse (Zeffirelli ne realizzò una nel 1995 al suo debutto in Arena ed un’altra nel 2009, senza contare alcuni ritocchi intermedi e bozzetti lasciati inutilizzati). Una serata magica dedicata da Cecilia Gasdia, che da qualche anno regge con mano sicura le sorti del Festival lirico veronese, alla ricorrenza centenaria della nascita di Renata Tebaldi e Ettore Bastianini (ascoltati in voce prima dell’inizio). Ma questa 99ma edizione era innanzitutto non solo la vigilia del centenario del Festival, ma anche quella del centenario della nascita di Zeffirelli, che nel cartellone 2022 firma anche Traviata e Turandot.

Già avendo visto Pagliacci e la scena del Caffè Momus in Bohème avevamo avuto modo di notare l’abilità del regista fiorentino nel muovere le masse in scena. Verona, col suo enorme palcoscenico (quasi 60 metri di boccascena) e le centinaia di comparse, gli offriva un’occasione davvero unica di sbizzarrirsi ad inventare una miriade di controscene secondarie. Nel primo atto la piazza si anima di ambulanti, di ladri in fuga, di carretti, soldati a cavallo e umili somari, anzi anche di una abbozzata carica di cavalleria. Insomma un vero tableau vivant, in cui si fa quasi fatica a seguire la molteplicità delle singole azioni sempre ben coordinate. Più corrusco e petroso il covo dei contrabbandieri, mentre il tourbillon scenico si ripete nell’ultimo atto con il finale femminicidio sotto l’emblema della croce. Onnipresente il ruolo della danza (cui ha dato vita l’innesto della compagnia di flamenco di Antonio Gades, che ha arricchito la coreografia originale di El Camborio) con mantiglie svolazzanti, aitanti toreri in sfilata, passi di flamenco in un clima da orgia dionisiaca.

Se l’allestimento di una Spagna full immersion fa scuola, in barba a chi ritiene museale questa linea registica ormai storicizzata, la realizzazione musicale non era da meno perché l’esperienza di Marco Armiliato sul podio, già apprezzato a Roma per l’Ernani, fa brillare i temi salienti (compreso quello sotterraneo della morte) guidando con esperienza l’orchestra dell’Arena e indovinando i giusti colori dei diversi quadri. All’altezza si sono sempre dimostrati tutti i solisti di canto con una Clémentine Margaine convincente sia vocalmente che come sensuale seduttrice e determinata vittima sacrificale, una Karen Gareazabal dai toni teneri e intensi di Micaela, un Luca Micheletti come esplosivo Escamillo e un impulsivo ma credibile Brian Jagde come frastornato Don José in preda al baratro della passione che lo trascinerà al folle gesto. L’Arena del resto è una platea unica, da vedere almeno una volta nella vita, perché qui lo spettacolo la fa da padrone e l’occhio (e non solo l’orecchio) rivendica le sue ragioni spesso umiliate dal minimalismo odierno.

VERDI Aida L. Monastyrska, E. Semenchuk, M. Karahan, F. Furlanetto, R. Burdenko; Orchestra, coro e ballo della Fondazione Arena, direttore Daniel Oren regia e scene Franco Zeffirelli costumi Anna Anni coreografia Vladimir Vassiliev

Verona, Arena 18 giugno 2022 

Se si facesse un sondaggio su quale titolo sia più adatto ai grandi palcoscenici estivi all’aperto come l’Arena di Verona o le Terme di Caracalla, non c’è dubbio che la palma della vittoria spetterebbe all’Aida di Verdi. Pur non mancando infatti nel capolavoro verdiano momenti di grande intimità (si pensi solo all’ultimo incontro dei due amanti sotto la pietra tombale ormai richiusa sopra le loro teste) certamente le molte pagine musicali attinenti al rito (cerimoniali, processioni e la celeberrima marcia trionfale dopo la vittoria di Radames sugli etiopi) la rendono già di per sé spettacolare. Insomma da effetti speciali in scena come in orchestra.

L’edizione riproposta all’Arena in questo  festival griffato Zeffirelli è quella del 2002 che vede troneggiare al centro del palcoscenico una grande piramide girevole, mentre  le masse di sacerdoti, armigeri, flabelliferi, danzatrici, popolani  riempiono le gradinate in una trionfo  della magnificenza con molti richiami al mondo egizio (del resto l’unica cosa autenticamente egizia erano i costumi e le scene disegnate dall’ egittologo  francese Auguste Mariette, fondatore e primo direttore del Museo archeologico del Cairo). La spettacolarità della scena e del movimento scenico, esaltata da una studiata simmetria speculare, rende appieno la monumentalità dello sfondo (il monumentale faraone assiso scolpito sulla piramide si ispira al famoso sito di Abu Simbel): sfingi con testa di faraone, arpe, monumenti ad Anubi, divinità con testa di sciacallo legata al regno dei morti, flabelli, arcieri; insomma, era presente tutto l’armamentario che deriva dai trattati di egittologia.

Sul podio c’era poi un direttore trascinatore come Daniel Oren che con il suo gesto ampio da visionario condottiero sa spingere carismaticamente l’orchestra nei momenti chiave, tenendo sempre d’occhio i cantanti in scena. Grandiosità e monumentalità fanno da contraltare alla vicenda umana dei due innamorati, cui riserva momenti di tenerezza.

Cantare all’aperto non è certo agevole, così come giudicare appieno le voci in questi contesti (13 mila spettatori sono più da stadio che da teatro). Liudmyla Monastyrska si è dimostrata un’Aida capace di mezzevoci e dunque vibratile a dovere, mentre Ekaterina Semenchuk nei panni di una determinata Amnerissi dimostrava talvolta aspra nel registro acuto. Un po’ sacrificato poi nel ruolo di Ramfis Ferruccio Furlanetto, mentre impeccabile appariva l’Amonasro di Roman Burdenko ed il tenore Murat Karahan si dimostrava un Radames più convincente nel ruolo di innamorato che in quello di prode guerriero.

Un’ultima annotazione infine per le coreografie di Vladimir Vassiliev, che sceglie una strana via di mezzo tra il linguaggio del balletto accademico e quello tribale africano per le belle pagine di danza esotica di cui la partitura è disseminate. Si trattava del resto di reinventare qualcosa di sconosciuto in quanto non pervenuto sino a noi, come aveva fatto Verdi con la musica egizia, perduta nei millenni. Ma reinventare con plausibilità è dato solo ai grandi geni.

Lorenzo Tozzi

Foto: Ennevi

Data di pubblicazione: 21 Giugno 2022

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