“La bohème” a Napoli sogna ma non vola

PUCCINI La bohème, S. Zanetti, S. Costello, B. Torre, A. Filończyk, P. Di Bianco, A. Spina, M. Peirone; Orchestra e Coro del Teatro di San Carlo, direttore Juraj Valčuha regia Emma Dante scene Carmine Maringola costumi Vanessa Sannino luci Cristian Zucaro

Napoli, Teatro di San Carlo, 17 ottobre 2021

Delle due inaugurazioni previste al San Carlo per la stagione 2021-22, la prima è stata una nuova produzione di Emma Dante de La bohème; la seconda avverrà a novembre, con Mario Martone che metterà in scena Otello con Jonas Kaufmann protagonista.

La proposta dell’intramontabile capolavoro pucciniano ha avuto un ottimo riscontro per quanto riguarda l’affluenza, anche perché c’è stata la felice coincidenza della rimozione del divieto di riempire tutti i posti a sedere, e il pubblico non si è fatto scappare l’opportunità di tornare a teatro, facendo il sold out pertutte le recite.

Emma Dante, ormai un’icona della regia d’opera, ha ambientato la storia degli artisti squattrinati in un affollato condominio popolare, dove i quattro vivono, più che in precaria povertà, letteralmente “sul lastrico”: bivaccano all’aperto, sul lastrico solare, sotto lo sguardo di trans e prostitute che li sbirciano dalle finestre.

A questa realtà degradata, la regista contrappone elementi che farebbero pensare ad una dimensione onirica: due ballerini di giallo vestiti che danzano su per i vari livelli del condominio su ritmi (muti) caraibici; l’apparizione ricorrente su un terrazzo in alto di un bizzarro corteo di suore accompagnate da un cardinale vestito di rosso, che ci pare una citazione felliniana. In questo clima si inserisce il duetto d’amore del primo quadro, messo in scena con un esplicito riferimento a “La Promenade” di Marc Chagall, con i due innamorati che sognano di volare via dalla miseria e dal dolore.

Eppure, anche se alla ricerca dell’effetto straniante, (vedi anche la trovata di intrattenere il pubblico con acrobati e clown durante il primo cambio di scena) Emma Dante non sembra “épater le bourgeois” più di tanto. Nel complesso la sua regia non disturbava per niente, anzi, era più tradizionale di quanto si potesse pensare, al punto da rispettare persino la moda del 1830, anno in cui si svolge la storia originale. Nel secondo quadro, il trambusto del Natale in piazza era davvero pittoresco, colorato e allegro, con i protagonisti quasi indistinguibili, inghiottiti dalla fiumana di gente festante davanti al Caffè Momus (una movida, si direbbe oggi).

In definitiva, è stata l’ambientazione del terzo quadro, alla “Barrière d’Enfer”, la più essenziale e godibile dal punto di vista drammaturgico. Comunque, a fare la vera differenza su tutto il resto, compresi i cantanti, in questa Bohème sancarliana, sono stati scene (Carmine Maringola), costumi (Vanessa Sannino) e luci (Cristian Zucaro).

Il soprano Selene Zanetti ha proposto una Mimì dal canto nitido e dal fraseggio chiaro, che è riuscita anche a trasmettere il senso della fragilità proprio del personaggio; la cantante ha dimostrato una certa finezza melodica e un pertinente senso del dramma, ma senza offrirci momenti veramente memorabili. Il tenore americano Stephen Costello (Rodolfo) ha cantato con un tutore al braccio a causa di una frattura provocata da una caduta pochi giorni prima. Quindi, non ha potuto neanche abbracciare Mimi, quando la passione tra loro ha iniziato a divampare. E in verità, forse anche a causa dell’impedimento, ha cantato in modo sì molto professionale ma senza veri “squilli”, né sul versante del canto né su quello della recitazione. Ad onor del vero, a volte l’alchimia tra i due ha funzionato, e ci sono stati momenti in cui il ​​calore della passione dei due amanti ha raggiunto il pubblico; questo, soprattutto nel terzo quadro, quando esplode la tensione tra la sartina e il poeta, con Rodolfo tormentato dalla povertà e dal senso di colpa, e Mimì intirizzita dal freddo ma ardente d’amore.

Il baritono polacco Andrzej Filonczyk ha dato sincerità e forza al pittore (qui graffitaro) Marcello, con un suono baritonale robusto e una raffigurazione convincente del personaggio. Benedetta Torre come Musetta ha fatto un’ottima impressione, rappresentando l’eccentricità del suo personaggio con sagacia, ma senza rinunciare ad essere amabile e dolce. Il suo timbro era leggero, ma con un volume piuttosto importante: è apparsa seducente in “Quando me’n vo’” ma anche toccante per la disperazione provata davanti al letto di morte di Mimi (in realtà una brandina all’addiaccio) nel quarto quadro.

I ruoli secondari sono stati tutti cantati con correttezza e professionalità. Pietro Di Bianco è stato uno Schaunard rispettoso della consegna; Alessandro Spina ha proposto un Colline affidabile e cantato la sua “Vecchia zimarra” con dignitosa auto-compassione. Anche Matteo Peirone ha interpretato con proprietà di toni e di recitazione i due personaggi a lui affidati, Benoit e Alcindoro.

Juraj Valčuha ha dimostrato la consueta sensibilità verso questo repertorio, cercando di raggiungere il massimo equilibrio tra cantanti, orchestra e coro. Il direttore ha sottolineato con cauta misura i momenti emozionanti, lasciando comunque spazio alla passione. Poiché in alcuni passaggi le voci dei cantanti non erano proprio dal volume imponente, (si parla soprattutto di Rodolfo), Valčuha ha mantenuto la dinamica della partitura di Puccini alquanto bassa, per consentire il massimo della cantabilità.

La scena d’insieme del secondo quadro ha confermato la buona forma del coro preparato da Josè Luis Basso, con il consueto, positivo contributo del coro di voci bianche di Stefania Rinaldi.

Lorenzo Fiorito

Data di pubblicazione: 21 Ottobre 2021

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