Errori e orrori di un doppio Rossini romano

ROSSINI La cenerentola S. Malfi, J. F. Gatell, G. Caoduro, A. Corbelli, D. Mizzi, A. Vestri, M. Mimica; Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma, direttore Alejo Perez, regia Emma Dante.

Roma, Teatro dell’Opera, 26 gennaio 2016

ROSSINI Il barbiere di Siviglia T. Iervolino, E. Rocha, F. Sempey, I D’Arcangelo, S. Del Savio, V. Nizzardo, E. de la Peña; Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma, direttore Donato Renzetti, regia Davide Livermore.

Roma, Teatro dell’Opera, 16 febbraio 2016

 

Doppio Rossini al Teatro dell’Opera di Roma con La cenerentola e Il barbiere di Siviglia, entrambi sotto il segno dell’originalità e della provocazione. E soprattutto di quel trend crescente che vuole l’impatto d’ una produzione operistica non nell’attuazione musicale, ma nel coté visuel organizzato dalla libera fantasia del regista. Questi sono i segni dei tempi e dobbiamo prenderne atto: nel bene e nel male. Nel bene per Emma Dante e la sua Cenerentola. Regia meditata e passionale, come sempre da questa geniale siciliana. Cui non sono sfuggiti, della partitura rossiniana, i pilastri portanti dell’eleganza e della follia. Elegante certo l’impianto scenico concordato con Carmine Maringola: tutto sotto il segno dei preziosi accostamenti di colore all’ avorio d’una parete laccata nel fondo, bon-à-tout-faire, ove s’aprono finestre che svelano damaschi o scendono fluttuanti sete turchesi o davanti a cui scorrono paraventi d’epoca, poltrone e panche griffate, carrozze gigantesche etc. Luci sapienti immergono il tutto ora in un flou onirico, ora in una chiarezza abbagliante, ora in altre dominanti cromatiche. Non da meno i costumi di Vanessa Sannino, talora certo paradossali, ma non privi d’una lor lussuosa coerenza con gli assunti gestuali. Che son quelli d’una constatazione della logica meccanicistica e razionalistica sottesa alla musica di Rossini e della contemporanea sua continua, beffarda negazione: contemplare l’ingranaggio perfettamente impazzito sembra esser qui la premura più urgente, la necessità rappresentativa dominante. Sì che l’azione va spesso in mano a quei bravissimi mimi e ballerini (cloni, doppi, simboli, fantasmi che siano), la cui corda metallica si ricarica, s’anima o si spegne a seconda degli eventi e della dinamica musicale ad essi correlata. Giusto e accattivante senz’altro: ma forse tale da metter un poco a margine il meraviglioso substrato lirico della Cenerentola, le sue poetiche malinconie, le sue oasi elegiache. “Una favola nevrastenica”, dice la Dante della propria regia, non indenne dunque dall’ incubo e dalla paura, dal grottesco e dal caricaturale. Bravissima, però appena un po’ più di cuore qua e là, signora mia, ce lo poteva anche mettere! Non allo stesso, alto livello, è sembrata la parte musicale. Il direttore Alejo Perez non ha cercato il bel suono o le dinamiche brillanti, ma solo una pulizia calligrafica ai limiti dell’indifferenza. La protagonista Serena Malfi, su un bellissimo colore di voce nel centro e nel grave, innestava un registro acuto duro e metallico e una personalità un po’ troppo riserbata. Juan Francisco Gatell è un rossiniano di sicura appartenenza e ha snocciolato acuti e agilità con sicurezza assoluta, pur con una voce strettina e sovente querula. Alessandro Corbelli ha portato a Don Magnifico un’arte da fine dicitore ormai quintessenziata ed anche alcuni tratti di sommaria, un po’ svogliata protervia. Più coinvolto e forse migliore della serata per la vocalità slanciata e la giovanile baldanza, Giorgio Caoduro è stato un Dandini poco macchiettistico, anzi d’insolita castigatezza (alla prima Marco Spotti però aveva tenuto banco in modo formidabile). Voci di mediocre qualità, le due sorellastre – Damiana Mizzi e Annunziata Vestri – hanno supplito con una recitazione a dir poco esilarante, mentre i pur possenti mezzi di Marko Mimica non sottraevano il suo Alidoro da una qualche rozzezza.

Nel male, dicevamo, per Davide Livermore e questo suo Barbiere di Siviglia, che del capolavoro rossiniano celebrava il bicentenario. Il problema è assai più complesso del “mi piace (a molti è piaciuto), non mi piace (a non pochi è dispiaciuto)” ed è bicipite, come sempre nel melodramma, ove si dovrebbe dar luogo ad un evento d’arte musicale e di scenica scienza in totale sinergia. Entrambe le istanze non possono prescindere dal solo dato a disposizione: qui una partitura di Rossini su libretto di Sterbini da Beaumarchais. Chiarite le paternità, è quell’opera che va portata in vita, non i suoi librettisti o le fonti di costoro: a farla breve, Rossini e non Beaumarchais. Anche perché tra il Cigno di Pesaro e monsieur Pierre-Augustin Caron de Beaumarchais è molto quel che passa. Il primo fu un’autentica canaglia, capace di tutto e di nulla, pronto ad ogni trasformismo, servo della corte e della rivoluzione a seconda del vento; e di lui, senza Mozart e Rossini, non si parlerebbe. Il secondo fu un genio e un gran signore della musica, innamorato della bellezza come sublime categoria dell’essere, conservatore se non reazionario, certo più incline alle nostalgie che alle barricate, alle memorie di un age dorée nei palazzi che alle ghigliottine nelle piazze. L’eversione è un concetto totalmente estraneo alla musica e all’anima di Rossini, ivi compreso il periodo francese. Così che tutto il gran baraccone tetro e confuso che Livermore ha montato per dirci il Barbiere, beh, con l’Autore, sì con Rossini, non c’entrava nulla, nullissima. “Quel horreur!” avrebbe detto Lui dalla retraite di Passy, nello scorgere re, regine, dittatori, generalissimi sbarbati e decapitati, sangue a rivoli, teste tagliate che parlano, laidi toponi ovunque, orsi che interloquiscono nei recitativi, maschere macabre, sedie a rotelle, arti meccanici, spostamenti d’epoca, televisori, cellulari e chi più ne ha più ne metta. Se amiamo qualcuno o qualcosa – una persona, un’opera d’arte, il nostro gatto – non possiamo volerlo diverso. Non possiamo imporre alla nostra fidanzata (truccatore e chirurgo alla mano) di trasformarsi in Monica Bellucci; non possiamo voler completare (a scalpellate) il metafisico non-finito della Pietà Rondanini di Michelangelo; non possiamo pretendere (a calci) che il gatto abbai. Se no, amici miei, si sfora nella patologia mentale. Amore è amar l’altro come egli è. Sì che non si può volere che Il barbiere di Siviglia diventi Nightmare o Beetlejuice o Frankenstein junior o La piccola bottega degli orrori o La famiglia Adams; e che Figaro – al fatto più che compiaciuto del suo status quo: “Oh, che bel vivere”… – si atteggi a Robespierre, a Lenin, a Che Guevara. Per noi tutto ciò è stato solo brutto; per molti in teatro (e non ne hanno fatto mistero) offensivo. La delirante invadenza della regia ha certamente condizionato un versante musicale già di suo piuttosto povero. Renzetti, lungi dal fornire una qualche visione personale, ha stentato a tener insieme palcoscenico e orchestra, con momenti di pressapochismo talora imbarazzanti. Fra le voci, Florian Sempey (Figaro) è un bravo e giovane baritono la cui linea di canto è tutta da rifinire; Edgardo Rocha (il Conte) ha perso molto dello smalto di alcuni anni fa e “Cessa! Di più resistere” è di sicuro assai oltre la sua portata; Teresa Iervolino (subentrata a Chiara Amarù, malata) si è dimostrata invece ben all’altezza di Rosina, cantata in modo impeccabile e con squisita, talora seriosa, nobiltà di portamento. Bene Ildebrando D’Arcangelo, anche se don Basilio non è fra i suoi ruoli d’elezione, mentre sul don Bartolo di Simone Del Savio e sulla Berta di Eleonora de la Peña è meglio tacere.

Maurizio Modugno

Data di pubblicazione: 19 Febbraio 2016

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