Sesso e religione in un pessimo Don Giovanni a Roma

MOZART Don Giovanni A. Arduini, M.G. Schiavo, J.F. Gatell, A. Di Matteo, S. Jicia, V. Priante, E. Cordaro, M. Croux; Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma, direttore Jérémie Rohrer regia Graham Vick scene Samal Blak costumi Anna Bonomelli

Roma, Teatro Costanzi 29 settembre 2019

Il Don Giovanni di Mozart è uno dei capolavori assoluti della storia dell’opera: come la Semiramide di Rossini, come il Falstaff di Verdi, come il Tristano e Isotta di Wagner. Inquietante e sfuggente, misterioso e sublime, s’erge nella cultura europea da oltre duecento anni, quasi una Sfinge musicale. Ognuno (filosofi, esegeti, direttori d’orchestra, cantanti, metteurs en scène) cerca di afferrarne l’essenza ultima, nessuno può realmente scoprirne la totale verità e gl’interni, infiniti meandri. L’inaccessibile, l’ineffabile, le soglie non varcabili, fanno parte, la parte più attraente, della nostra umanità.

Ha invece pensato d’aver trovato l’“Apriti sesamo!” del Don Giovanni l’inglese Graham Vick, la cui regia del testo mozartiano è stata proposta al Teatro dell’Opera di Roma in questi giorni, con un’esecuzione musicale – come dire? – “retrostante” (visto l’assoluto protagonismo della parte visiva), diretta da Jérémie Rohrer. Vick (quanto all’Italia) aveva già firmato nel 2014 una regia del Don Giovanni, coprodotta da un assai largo circuito teatrale che partiva da Como, proseguiva per Jesi, Pavia, Cremona, Bolzano ed oltre, approdando infine al terminal di Reggio Emilia. La produzione romana ne è in parte diversa, ma il teorema fondamentale, l’“Apriti sesamo!” dell’ermeneutica vickiana rimane identico. Ed è facile a capirsi: per lui il Don Giovanni è un apologo sul sesso come liberazione dalla religione (avrebbe detto Enrico VIII) “papista”. E di sesso non ne è mancato sul palcoscenico del Costanzi: esplicito o alluso, tranquillo od orgiastico, consenziente o sforzato, tradizionale o maniacale, è stata una girandola continua di cinture slacciate, camicie sbottonate, gonne alzate, zip e lampo che si aprono e si chiudono, svestimenti e vestimenti, etc. etc… “Ho capito! O ciel, che noia!”, direbbe don Bartolo… Neppur la religione difetta, naturalmente: l’albero scuro eternamente al centro è quello (ora disseccato) del Paradiso Terrestre, pronubo a suo tempo del peccato originale ed ora trespolo per don Giovanni, che vi s’arrampica a guatare cinicamente il mondo circostante. Donna Elvira è una suora (e le scarpe erano quelle giuste!); invece della statua del Commendatore, appare il volto della Sindone; e alla fine scende improvviso, immenso e temibile, l’avambraccio del Creator d’Adamo della Sistina michelangiolesca. Don Giovanni però (“Bravo, bravo, arcibravo!”) lo tira e lo strattona fino a staccarne, con un “crac” clamoroso, l’indice della mano. Da parte di Masetto se ne farà, da ultimo, un uso volgare assai. Crediamo che le bordate di fischi e grida e “buuhh” che hanno salutato già dal primo atto un prodotto così perspicace, ne abbiano fatto bastante giustizia. Crediamo però anche necessario invitare mr. Graham Vick, CBE e forse presto “sir”, a legger più a fondo il libretto concordato tra Mozart e Da Ponte: ove la punizione che raggiunge El burlador de Sevilla mai è ricondotta al Numinoso e al Divino cattolico, ma ad un imperativo d’ordine morale e civile di natura affatto laica, meglio ancora di “ragione illuministica” trionfante (con il fugato finale) sull’ “antiragione libertina”. La storia, sir: sempre e anzitutto, please!

Alessio Arduini (Don Giovanni) e Vito Priante (Leporello)

Dicevamo di una lettura musicale “retrostante”. Diciamo di più: tanto invadente e demenziale era la regia, quanto smorta era l’esecuzione, tanto erotismo correva in scena, quanta castità vigeva fra direttore e cantanti. Jérémie Rohrer ha attutito e rallentato tutto, senza curare né i recitativi (sempre insignificanti), né i ritmi piccanti o le melodie sensuali delle arie e degli ensembles; è riuscito a togliere bellezza e mistero anche alla Scena delle maschere (ed è tutto dire); salvo risvegliarsi in un finale eccessivo e rumoroso. Ove la già piccola voce del protagonista, Alessio Arduini, è stata completamente sommersa. Nelle altre scene, questo giovane baritono di Desenzano ha dato prova invero più di prestanza fisica che di cospicuità vocale e di fascinazione affabulatoria. Vito Priante ha mezzi ben più importanti, ma appariva come disadattato (certo, cantare “Voglio fare il gentiluomo” sotto un ombrello aperto, con un secchio semovente che dall’alto riversa liquidi imprecisati, come può dar impulso ad un interprete?) e il suo “Catalogo” è stato piatto assai. Sforzata e gutturale, la suor Elvira di Salome Jicia ha qui caricato oltre il giusto un ruolo che ben diversa nobiltà vorrebbe; e Marianne Croux poco di meglio ha fatto con Zerlina. Se aggiungiamo il Masetto grossolano di Emanuele Cordaro e il Commendatore imponente, ma faticoso negli acuti, di Antonio Di Matteo, vedremo che di irreprensibili alla fin fine non c’erano che Maria Grazia Schiavo, una Donn’Anna di voce non certo maestosa, ma di buon canto e Juan Francisco Gatell, che pur nella versione di Praga (avara per il tenore) ha esibito lo stile e il discreto timbro che gli conosciamo. Su tutti peraltro sembrava incombere un qual senso d’abbandono, un lasciarsi andare di strumenti, voci e persone (altrove ben più apprezzabili, come la Jicia, Priante e lo stesso Rohrer), senz’ altro senso che la faticata obbedienza alle esternazioni freudiane del regista.

È questa una “moderna prattica” della quale non da oggi additiamo il pericolo. Il mondo dell’opera, come letteratura e come interpretazione, come arte totale, scritta eppur sempre vivente, come patrimonio dell’umanità, sta rischiando di sfrangersi ad opera dei registi, con una sorta di inquinamento e di riscaldamento senza scrupoli, al modo dei corrosi ghiacciai del Polo Nord o del Monte Bianco. Save the opera!

Maurizio Modugno

Foto: Yasuko Kageyama – Opera di Roma

Data di pubblicazione: 3 Ottobre 2019

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