Compagni di merende

Compagni di merende

(in margine al canone “scatologico” KV 559)

 

di Carlo Vitali

 

Dopo l’uscita del mio elzeviro La pagliuzza e la trave (vedi qui), un lettore di “Classic Voice” e di MUSICA ha attirato la mia attenzione su un’ulteriore bufala ermeneutica (l’ennesima) dei signori Bianchini & Trombetta. I quali, come avevo già diagnosticato suscitando le loro scomposte ire, “non paiono sapere molto di tedesco; vuoi arcaico e dialettale, vuoi moderno”. Però si azzardano in complesse esegesi linguistiche fuori della loro modesta portata. Benché l’argomento sia alquanto inelegante, non voglio lasciar cadere l’invito dell’avvocato Manacorda, cognome illustre nella germanistica italiana.

A p. 353 del loro volume La caduta degli dei: Parte prima (d’ora in poi il Libro I) affermano i sullodati Autori: “La ‘pura’ immagine di Mozart ‘bianca come un cigno’ è un’illusione romantica”. Grazie assai: quanto a questo arrivano buoni ultimi, ma vediamo il punto forte della loro tardiva denuncia.

Il Canone “Difficile lectu mars” [sic!] K.559 somiglia al Kyrie K.89, essendo all’unisono a tre parti di Soprano. […] È stato ufficialmente inserito da Wolfgang nel suo catalogo personale il 2 settembre 1788. Fu scritto, così dicono, negli anni 1786-1787. Il testo, in latino maccheronico, suona come se fosse sacro, ma, se lo si ascolta con attenzione, si capisce che le parole latine non significano nulla. La pronuncia veloce delle sillabe produce un testo nuovo, che suona all’incirca come “die fitsch’ i leck du mi’m Arsch”, che in dialetto salisburghese significa “quella me la fotto io tu leccami il culo.” La seconda parte recita “ionicu” ma quando è ripetuta dalle diverse voci muta in “coglioni, coglioni, coglioni” […] Mozart [lo] compose per farsi beffe del baritono Johann Nepomuk Peierl, un pover’uomo, così dicono, che pare avesse problemi di pronuncia. (Libro I, pp. 356-7).

Errori, distorsioni e pseudoproblemi in serie: il vero incipit è “Difficile lectu mihi mars” e non suona “come se fosse sacro” perché evoca il nume pagano Marte. I tre pentagrammi sono sì annotati in chiave di soprano, ma se erano destinati al baritono (meglio: baritenore) Peierl e altri compagni delle merende di Mozart, come avrebbero fatto a cantarlo senza una trasposizione a vista? Tutti in falsetto? “Fu scritto, così dicono…”. Gli anni sono quelli del soggiorno viennese di Johann Nepomuk, che nel 1785 era ancora a Salisburgo ma nel 1787 traslocò con la moglie, la famosa soprano Antonia Peierl, a Graz poi a Monaco. E non era affatto “un pover’uomo, così dicono”, bensì un cantante di successo fino alla sua prematura morte per tifo nell’anno 1800. Peggio di tutto, per far tornare il primo comma della loro sconcia sciarada B&T devono sopprimere una sillaba: il primo dei due “-le-” consecutivi, il che puzza di arbitrio. Tanto più se si guarda la distribuzione del testo sotto la musica (valori delle note e lunghezza delle pause fra le due sillabe identiche).

Autografo del canone KV 559 (dettaglio). Londra, British Library, fondo Zweig MS 58

 

Era poi tanto “maccheronico” e asemantico quel latino? Per nulla. Il primo comma della frase dà senso sintattico compiuto: “Per me [il nome di] Marte è difficile da leggere”. Più problematico il secondo, dove solo con l’aggiunta di una desinenza maschile si potrebbe intendere “et [sermo] jonicus difficile” (e anche il dialetto ionico è cosa difficile). In dialetto greco-ionico sono scritte per esempio le Storie di Erodoto, ma vai a sapere cosa c’entrasse in quel burlevole contesto. Ben prima di B&T, tale augusta porcheriola avevano già analizzato a fondo (elenco parziale): Gottfried Weber nel 1824, Bernhard Paumgartner nelle sei edizioni della sua fondamentale biografia mozartiana (1927-1967), Emanuel Winternitz (1958), Jean-Victor Hocquard (1999). Tutti, a parte Paumgartner, ignorati nella copiosa bibliografia del Libro I. Dell’episodio i signori B&T forniscono una versione che se da un lato appare sfocata, reticente e basata sui “così dicono” (chi lo dice?), dall’altro vi aggiunge – more solito – un gratuito sovraccarico di oscenità.

Vediamo ora la genealogia delle fonti. Weber, pubblicando in facsimile l’autografo del canone da lui posseduto, racconta: “Il peraltro eccellente Peierl aveva alcune strane idiosincrasie di pronuncia (einige wunderliche Eigenheiten der Wortausprache) sulle quali Mozart scherzava spesso nelle familiari conversazioni con lui ed altri amici. In una serata di tale allegro intrattenimento venne a Mozart l’idea di elaborare in un canone un paio di parole latine ‘Difficile lectu mihi’ ecc. cantando le quali la pronuncia di Peierl doveva apparire in una luce comica”. Si noti che Paumgartner, nativo di Vienna e assiduo frequentatore di Salisburgo per circa mezzo secolo, non fa parola di dialetti e risolve l’enigma in perfetto Hochdeutsch: “Difficile leckst du mich im Arsch” (Difficilmente tu mi lecchi nel c…). Winternitz risolve anche la seconda parte rilevando come la parola “jonicu”, se iterata rapidamente, si ricompone nel termine italianeggiante “cujoni”. In ultimo Hocquard presume un dialettismo bavarese che non cambia poi molto salvo l’introduzione di un ortativo “leck du mi im Arsch” (leccami nel c…) al posto dell’indicativo.

Ma se cominciamo a parlare di dialetto anziché di accento o “idiosincrasie di pronuncia” (Weber) l’affare si complica a dismisura. Peierl era nativo di Adldorf, a un centinaio di chilometri da Monaco e altrettanti da Salisburgo. Tutti e tre i centri ricadono nella medesima area dialettale detta bayrisch-österreichisch, mentre il dialetto viennese, più orientale e mescolato di svariate influenze, fa un poco storia a se. Se Peierl avesse parlato austro-bavarese stretto avrebbe forse pronunciato “legg du mia im Oasch”. Quanto all’ulteriore sconcezza “die fitsch’ i” per un presunto “die fick(e) ich”, il dialetto nativo di Peierl e Mozart usa per la stessa funzione i verbi schnackseln e satteln, mentre in viennese si direbbe piuttosto pudern. Ci mostrino B&T un solo esempio di lenizione dialettale del “ck” in “tsch” e faranno una scoperta glottologica. Nell’area austro-bavarese, e non solo in quella, si avrebbe semmai “gg” (geminazione per assimilazione), quindi figgen. Esiste bensì un verbo fitschen, ma significa “battere con verghe” – e non andiamo oltre se no si sconfina nel sadomaso.

Per chi si diletta di tecnicismi diremo che le isoglosse b&trombiniane non tornano nemmeno a tirarle cogli argani. Prima di darsi interamente al canto, Peierl aveva studiato filosofia e teologia al Seminario di Monaco sotto maestri gesuiti. Si può escludere che fosse tanto ignaro di latino da pronunciarlo in bavarese; semmai avrà fatto automatico ricorso alla “pronuncia scolastica”, che prevedeva – e ancor oggi prevede nella maggioranza delle cappelle musicali cattoliche in quell’area – la “c” come identica alla “z” tedesca [ts] davanti a vocali e dittonghi quali a, e, i, y, æ, œ, ma “k” leggermente aspirata negli altri casi. Con l’eccezione del pronome mihi, oscillante fra “miki” e “miçi”. Su questo tema corrono di gran controversie fra gli specialisti (cfr. H. Copeman e V. Scheer, “German Latin”, in Singing Early Music, a cura di T. McGee, 1996, tuttavia è difficile pensare che le loro analisi valgano anche per la Hofkapelle viennese, allora infarcita di cantori italiani).

Lasciamo comunque in pace la dialettologia selvaggia ad usum Bianchini e torniamo alla testimonianza di Weber, dove si parla di strane idiosincrasie personali di Peierl, non già di un  accento regionale che a Vienna non doveva poi suonare tanto esotico. Forse l’ottimo cantante soffriva di una qualche dislalia mal compensata (ad esempio kappacismo, chitismo o sigmatismo) che lo induceva ora a lenire ora ad aspirare indebitamente talune consonanti? Domandiamone i logopedisti. Tutto sommato riteniamo che la soluzione di Paumgartner sia ancora la più attendibile. Immaginiamo che, avendo lo Hochdeutsch come generale sottofondo linguistico appreso a scuola, e come sottosistema professionale la pronuncia scolastico-corale del latino, Peierl avrà cantato più o meno: “Dif-fi-tsile le-ksçtdu mi-çi ’m Arsç […] cu-jo-ni, cu-jo-ni, cu-jo-ni”. Più del necessario per giustificare una grossolana burla fra amici (v. il Canone Kv 559a) che B&T, chissà perché, datano “forse” al 1775. Le golose superfetazioni fottitorie, estranee alla sfera scatologica propriamente detta, lasciamole alla fantasia sbrigliata dei nostri revisionisti.

Data di pubblicazione: 22 Maggio 2017

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